E vabbè...#Federer ? pic.twitter.com/rA3zlCi5bv
— Pà (@paoloasr81) 10 luglio 2019
2 match point salvati
4 ore e 57 minuti di lotta
La finale più lunga di sempre sull'erba di #Wimbledon#tennis #WimbledonFinal@DjokerNole @rogerfederer pic.twitter.com/hmOAQeokfA
— SuperTennis TV (@SuperTennisTv) 14 luglio 2019
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport - www.corrieredellosport.it
Così no. Prima tutto troppo irreale, poi tutto troppo crudele. Non ci sai fare con i copioni tu che hai preteso di scrivere questa finale. Sei negato. Cambia mestiere. Match d’insostenibile bellezza. Avevi il capolavoro tra le dita. L’hai buttato ai vermi e li hai chiamati tie break. Ha vinto Novak? Ha perso Roger? Fatti vostri. Non mi riguarda. Miserabile contabilità da travet del pallottoliere. Millimetri.
Non lo rispetto per niente l’ignorantissimo assunto per cui si debba attendere il risultato finale per sapere chi ha vinto quando gioca Roger. È una razza di sconfitta quella di uno che a quasi 38 anni si presenta per la dodicesima finale di Wimbledon, la trentunesima in un torneo del Grande Slam, avendo spazzato via in semifinale il Furente Topastro di Manacor e trascinando in finale la Magnifica Bestiaccia Gommosa di Serbia in fondo al quinto set e alla quinta ora e a un passo dalla sconfitta? E noi al disastro emotivo.
Sconfitta? Qualcuno se la sente di definirla così? Per me ieri la più grande impresa di Federer. Onore a Djokovic, ma l’estasi piove a dosi insostenibili solo dall’altro lato del Court. E le parole. Quelle sono finite da tempo. La capacità di stupore anche. Roger è questo, ti spinge in un luogo dove nascondere l’emozione è impossibile, raccontarla ancora di più. Solo una domanda Roger: eri tu lo stesso quello che sedici anni fa strapazzava in finale un australiano dal nome greco? Se sì, non sei umano. Definitivamente.
Mi secca darti torto, quel gran genio che eri e che sei di David Forster Wallace (compreso l’impiccarti un giorno alla trave di casa tua non immaginando più altro), ma Roger Federer non è più solo un’esperienza religiosa. È un’esperienza psichedelica. Come tale va vissuta.
Dovevi arrivare pronto all’appuntamento, ore 15, canale Sky, essere all’altezza di quello che, sotto le mentite spoglie di una partita di tennis, è stato in realtà un viaggio allucinatorio, un luna park a vantaggio di menti alterate. Non avendo droghe a disposizione, mi sono fatto un litro di bianco locale ben refrigerato e due bicchierini di Fernet alla menta integrati da una fetta di caciocavallo di Andria, il più allucinogeno di tutti. Non è bastato. Al quinto set e alla quinta ora abbiamo tutti gettato la spugna. Quanto accadeva su quel campo non era misurabile da noi umani. Non ci riguardava più.
Esorcizzato l’assatanato Rafa, era stavolta il temibile Novak Djokovic a incarnare il principio di realtà. Nel corpo astrale di due match inverosimili, Roger è stato se stesso, è stato Rafa, è stato Novak. Ha inventato tennis da ogni possibile corpo del tennis, inclusi quelli non suoi. È stato leggero e solido, fluido e potente. Ha dispensato conigli dal cilindro, fiori dai cannoni.
Quando gioca Roger è quel tipo di beatitudine che non ti consente di desiderare altro. “Non ci credo!” è il grido collettivo quando gioca Roger. Sei lì a chiederti se hai le traveggole quando gioca Roger. Sei lì a scambiarti messaggi con amici laici dalla buona vista: “Ma è tutto vero quello che vedo?” “Tutto vero”. “No, illusioni ottiche”.
Alla fine, i più esausti non erano i due a scodellare prodigi in serie, ma noi a doverli guardare e alla fine sopportare. Roger Mandrake scartava perle, trappole, agguati, illusioni, giochi di luce. Novak Houdini inventava ogni volta vie d’uscita, a partire dal trapanante palleggio al servizio.
L’erba nel frattempo era diventata terra. Ma Roger non l’ha mai saputo. Sappia però che mai una sconfitta somigliò così a una vittoria.
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