Alessandro Grandesso per gazzetta.it
Nessuno dovrebbe essere costretto a vaccinarsi. Anche se vaccinarsi è il miglior modo per proteggersi. Lo dice Zlatan Ibrahimovic prendendo le difese dell’amico Novak Djokovic, espulso dall’Australia dove doveva partecipare all’Open di Melbourne, perché non in regola con la normativa sanitaria locale.
L’attaccante del Milan parla dalle colonne del settimanale “Journal du Dimanche”, intervistato in occasione dell’uscita, mercoledì, di “Adrenalina”, l’autobiografia scritta insieme alla firma della Gazzetta Luigi Garlando. Dopo aver evocato gli anni al Psg, incoraggiando Mbappé a trasferirsi a Madrid, e dopo essersi complimentato anche con Josh Cavallo, il calciatore australiano che ha resa pubblica la sua omosessualità, Ibrahimovic affronta il caso Djokovic.
SCELTA— E Zlatan lo fa a modo suo, con una domanda a chi lo intervista: “Lei perché si è vaccinato?”. La risposta è chiara: “Per proteggermi e proteggere gli altri”. Da qui lo svedese approfondisce l’argomento: “Vaccinarsi per ragioni di salute non è lo stesso che per partecipare a un torneo di tennis. Chi si vaccina lo fa perché ci crede e pensa sia efficace contro la malattia. Ma ognuno ha la sua opinione. La gente non dovrebbe essere costretta a vaccinarsi solo per andare al lavoro. Io mi sono vaccinato perché penso sia il modo migliore per proteggermi, non per giocare a calcio. Si tratta di due situazioni differenti”.
GLI ANTIPATICI DI SUCCESSO
Stefano Semeraro per “Specchio – La Stampa”
Chissà se Novak Djokovic, che il bollino nero di «antipatico» dopo averlo schivato, avversato, rifiutato, negato, smentito, evitato per anni, ora se lo ritrova stampato a fuoco sulla maglietta per via del respingimento australe e di tutti gli annessi e connessi - chissà se Djokovic, dicevamo, conosce la battuta definitiva sull'argomento.
«Se fossi tua moglie, Winston», disse una volta a Churchill Lady Astor, la prima donna a sedersi nel parlamento britannico, «Ti metterei il veleno nel caffè». «E se fossi tuo marito, cara», rispose implacabile lui, «io lo berrei». Dal più famoso dei primi ministri della storia al nostro argomento si arriva del resto rapidamente utilizzando come passerella un'altra sua celebre battuta: «Il segreto della mia longevità? Lo sport: non l'ho mai praticato». Ecco. Resta semmai la curiosità di quale sarebbe stata l'opinione del freddurista Churchill sul personaggio Djokovic, e su come la sua presunta o reale antipatia - chiunque batta con regolarità Federer deve comunque rassegnarsi allo stigma - sia riuscita a trasformare il bando sanitario da un torneo di tennis in una questione di Stato e nell'oggetto di un talk show planetario.
Altri, nello sport, sono passati alla storia con molto meno sforzo. Se vogliamo restare al tennis, ad esempio, facciamo entrare in scena Jimmy Connors, l'Antipatico per antonomasia. Amorevolmente maltrattato sin da fanciullo da mamma Gloria e nonna Bertha («Guarda, Jimmy, persino tua madre è in grado di batterti»), il mancino di Belleville, con il suo rovescio piatto e il naso da piccola peste che spuntava arricciato dal caschetto di capelli castani, ha inoculato la violenza (agonistica) nel tennis ancora educato degli anni '70. Pugni agitati verso l'avversario, trash talking (okay: parolacce), un body language centrato sul pube, le infinite discussioni, molto più acide di quelle di McEnroe, con arbitri e organizzatori. Ma anche gesti clamorosi, come quello di invadere il campo dell'avversario - no, no, no, nel tennis non si fa - , in un match contro Corrado Barazzutti, per cancellare il segno, dubbio, di un suo colpo.
Quando nel 1991, a 39 anni e già tendente al «venerato maestro», arrivò in semifinale agli Us Open incendiando New York, «Jimbo» non si risparmiò lazzi, gesti osceni e contumelie neanche nei confronti del suo «figlioccio» tennistico Aaron Krickstein. Che infatti non gli ha parlato per i seguenti 24 anni. Essere dei numeri 1, dominare la propria specialità e non passare per antipatici, arroganti ed egolatri: ammettiamolo, non è facile. Ci sono riusciti, miracolosamente, Federer e Nadal, ma non - cambiando rettangolo di gioco - un fenomeno assoluto come Michael Jordan.
Uno nato appeso al cielo e abituato a scenderci solo alle proprie condizioni. Il più grande cestita della storia, probabilmente; ma anche il divo che alla sesta tripla consecutiva - capitò nelle finale Nba del 1992 - era capace di voltarsi verso il pubblico facendo spallucce. Il fuoriclasse che come Djokovic o Ibrahimovic per riferirsi a Dio cancella spesso una consonante, ma che a differenza di Ibra fatica a riconoscere i meriti dei suoi compagni. La fortunatissima ma molto Jordan-centrica serie tv «Save the Last Dance», da cui i Chicago Bulls escono derubricati a ragazzi del coro, gli è costata l'amicizia di Scott Pippen. «Inorridisco a rivedere come trattava male i suoi compagni», ha sibiliato il soccombente di lusso. «E sui Bulls si sbaglia: non abbiamo vinto sei titoli perché Michael ci stava addosso. Li abbiamo vinti nonostante lo facesse». Sua Altezza «Air» la sua incapacità di essere normale, e amato al di là delle imprese, fra l'altro l'ha sempre vissuta conflittualmente, come una diga di rancore a cui aggiungere ogni giorno una pietra, e persino da pensionato ha voluto intitolarsi una superiorità tutta autoreferenziale a LeBron James, come se neppure la divinizzazione da parte dei media, e il successo universale delle sue calzature, bastassero a placare la bulimia del suo ego.
C'è chi invece di impopolarità di nutre, chi la usa come combustibile, quasi se ne compiace. Leonardo Bonucci, uno dei giocatori più forti e odiati dell'ultimo decennio nel calcio italiano, è stato un bersaglio del lato più infame dei social, poco amato dagli avversari - l'eccezione: Daniele De Rossi - e detestato, spesso con ammirazione, da chiunque non sia di credo bianconero. Una antipatia che ha spunti lombrosiani - lo sguardo sempre accigliato, la postura aggressiva sul campo, la golosità con cui metabolizza l'odio altrui - ma che secondo Bonucci stesso ha una spiegazione più terra terra.
Per lui, uomo simbolo della squadra più vincente d'Italia, capitano di una nazionale bipolare nei risultati, «è quando vinci che diventi antipatico. Ricordo il primo anno con Conte e quello precedente con il settimo posto: eravamo simpatici a tutti». Il peccato dei vincenti seriali - quindi antipatici d'ufficio - è l'incapacità anche solo di immaginare, non parliamo di accettare, la sconfitta. Da qui la critica che le compagne di squadra di Valentina Vezzali le hanno sempre mosso. Troppo altezzosa, troppo convinta della sua superiorità. E poco disposta a dissimularla. Una fama che l'ha accompagnata anche fuori dalla pedana, quando deposto (a malincuore) il fioretto ha pensato di traslocarsi sugli scranni della politica. Inciampando però su mitiche gaffe - l'estatico «da lei mi farei toccare» rivolto in diretta tv a Berlusconi - e accuse sparse di voltagabbanismo al momento di entrare nell'esecutivo di Mario Monti.
All'annuncio della sua futura nomina a ministro dello sport un'altra campionessa azzurra, Patrizia Panico, ha promosso addirittura una petizione - #vezzalinograzie - condivisa da decine di migliaia di persone su internet. La Vezzali del resto in passato non si è certo aiutata presentandosi ai comizi politici con la tuta della nazionale. Ci sono casi di antipatia borderline, altalenante e congiunturale, vere intermittenze dell'ego da cui sono stati colpiti altri fuoriclasse come Pietro Mennea - che miscelava fasi da intrattabile a grandi cordialità, e nei momenti meno sereni pagava le spigolosità del carattere e un bisogno quasi scandaloso di giustizia, sportiva e no.
Oppure Federica Pellegrini, regina tormentata delle acque, alle prese con il peso del mestiere di Invincibile a tutti i costi. Lance Armstrong più che antipatico è stato falso e diabolico, e autoritario per come comandava a bacchetta il gruppo al Tour; John Terry e Pasquale Bruno si sono fatti trascinare oltre i confini da un codice d'onore tutto loro.
Niki Lauda e Alain Prost erano più schietti che arroganti, anche perché l'epoca glielo consentiva; Josè Mourinho più provocatorio che altro. Perché poi è così: ogni sentimento ha mille sfumature, cambia colorazione sulla cartina tornasole dei gusti privati e delle virtù esaltate o deprecate - in un preciso momento storico - dai media. Ayrton Senna era ombroso, egocentrico e misticheggiante - e alla bisogna menava pure - ma è diventato un cult inattaccabile perché la vecchiaia o la morte stemperano ogni antipatia, la sublimano nel ricordo, e ogni epoca ha la propria personalissima scala Mercalli dell'Insopportabilità.
Oggi possiamo venerare Carl Lewis, che ai tempi in cui era il Figlio del Vento non si risparmiava vanità e distacco, sdegnava il pauperismo del villaggio olimpico, marcava la sua diversità di Prescelto con abbigliamenti e acconciature bizzarre. Ma vederlo correre era sempre un brivido composito, una miscela di ammirazione e inferiority complex che il principe dell'atletica alimentava ad ogni inquadratura. Quindi chissà che in futuro non finiremo per ammirare, rimpiangere, perdonare, assolvere non solo Djokovic, che prima della botola australiana, con l'umanissima sconfitta di New York l'anno scorso, sembrava aver conquistato anche le emozioni del pubblico.
Ma anche l'Antipatico per eccellenza della nuova generazione, l'Arrogante 2.0, al secolo Max Verstappen. L'eterno post adolescente che fatica, forse anche per una tara generazionale ignorata e tollerata dai padri, a identificare il confine fra libertà e licenza, fra voglia di vittoria e volontà di (stra)potenza. In pista si comporta come un padroncino, ignorando le traiettorie altrui. In sala stampa ha minacciato di prendere a testate chi criticava il suo stile di guida. Già dalle categorie minori, spalleggiato da babbo Jos, non un miracolo di temperanza, bulleggiava avversari e compagni di squadra.
Approdato nel Circus ha dato del rimbambito a Kimi Raikkonen e mostrato il dito medio a Lewis Hamilton, ma cribbio, come guida, quando non si mette in testa di aver il copyright delle traiettorie. Critichiamolo oggi, in pubblico e sui social, finché siamo in tempo e dell'umore giusto. Sapendo bene che per tutti gli Antipatici di talento c'è una parte della nostra anima che confessa sottovoce: maledetti, vi amerò.
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