Alessandro Barbano per il Corriere dello Sport
C ’ è un prima e un dopo in questa storia, e tra loro una simbiosi che si muta in odio. Giovanni Malagò ne parla a strappi, con lunghe pause nelle quali intuisci la sua stessa incredulità: «Siamo fratelli, mi dice Sergej Bubka a febbraio nella hall dell’albergo olimpico di Pechino, vedrai che non succede niente.
Ma perché quelle truppe alla frontiera?, gli chiedo. Siamo fratelli, mi ripete, non attaccheranno. L’altro giorno lui è qui per incontrare gli atleti ucraini che si stanno allenando in Italia. Allora gli faccio: per me parlare con te o con Elena Isinbayeva, parlare con Valery Borzov o con Shamil Tarpischev era la stessa cosa. E lui mi gela: Giovanni, dice, i russi non li sentiamo più».
C’è un prima e un dopo in questa storia, e in mezzo una guerra che scava un cratere e separa due mondi abituati a confondersi. Il più grande saltatore con l’asta di tutti i tempi e il velocista di Monaco ‘72 stanno di qua, l’astista bagnata dall’oro ad Atene e a Pechino e il grande allenatore dei tennisti sovietici stanno di là. Tutti membri del Cio. Ieri una sola cosa. Oggi lontani mille galassie.
In una geografia dei sentimenti così martoriata, anche un navigatore consumato come il presidente del Coni fa fatica a districarsi. Quando gli chiedi se lo sport debba cacciare la Russia per punire Putin, o se invece debba salvarla per dimostrare che la Russia non è Putin, si stringe nelle spalle: «Che colpa ha un atleta russo in carrozzina, che si allena da quattro anni per le Paralimpiadi? Converrà con me, se dico: nessuna colpa».
Convengo…
«La pensava così anche il board dell’International Paralympic Committee, quando ha deciso di far disputare i giochi a guerra iniziata. Però, cosa è successo? Che gli altri, e non certo solo gli ucraini, si sono rifiutati. Fate gareggiare loro?, hanno detto. Noi torniamo a casa. Volevano che i russi prendessero posizione contro l’invasione. Le pareva facile?»
Ma che accade se lo sport smette di essere uno spazio franco e un argine estremo rispetto alla violenza della guerra?
«Non lo so. Forse è una domanda troppo impegnativa anche per uno che lo sport lo sente scorrere dentro, come il sangue, da sempre. Perché qui i fatti, anzi i misfatti, cancellano i principi. Certo, tu arrivi a Pechino e pensi ancora che la tregua olimpica sia uno dei capisaldi del nostro mondo. Senti il sacro che precede la cerimonia inaugurale, e pregusti il piacere del ritorno a casa con le medaglie.
Stai dentro un bel batuffolo d’ovatta. Poi ti accorgi che qualcosa sta cambiando. Trovi i cinesi, padroni di casa, gli africani, qualche europeo. Tante defezioni. Molti di noi ignorano il pericolo, qualcuno invece l’ha fiutato. Però Putin sta lì, e puoi ancora pensare che il quadretto stia in piedi. Invece lui saluta, torna a casa, e attacca. Attacca mentre i paralimpici scaldano i muscoli! Mi chiedo che cosa possa fare lo sport dentro un mondo così».
Prendere tempo, come ha fatto la Federazione internazionale di basket, perché magari la guerra si ferma e Italia-Russia il primo luglio si potrà giocare?
«Eh no, nell’equivoco non mi ci trovo. Non so come fermare quest’orrore, ma so che non posso fare finta che niente sia accaduto. E so da che parte stare. Con Gianni Petrucci, che ha detto forte e chiaro: l’Italia non gioca. E con gli atleti ucraini. Quelli che si allenano da noi per qualificare alle Olimpiadi un Paese che rischia di scomparire. E quelli che sono rimasti a combattere. Tanti di più. Lo sport e la guerra sono agli antipodi. Uno è l’acme della civiltà. L’altra il fondo della barbarie. Ma sa quanto vale un atleta in una resistenza così disperata?».
Tutti arruolati?
«La maggior parte. Mariti e mogli. Perché il nostro è un mondo particolare: gli sportivi si fidanzano tra di loro. Anche in Italia. Non puoi stupirti che le atlete ucraine abbiano scelto di combattere con i propri compagni. Gliel’ha detto la coscienza».
Vuol dire che lo sport fa meno fatica a capire da che parte stia la libertà, rispetto all’opinione pubblica, alla classe politica e alle stesse professioni intellettuali?
giovanni malago foto di bacco (3)
«Penso proprio di sì. Siamo diversi e più compatti. Abbiamo meno minoranze rumorose e più chiarezza delle regole, scritte e non. La democrazia nello sport è una continua forma di autodeterminazione. È il segno di un’identità. Un’identità non la stanchi».
L’identità ucraina nello sport può sopravvivere dopo una guerra così?
«Deve riuscirci. Per questo l’ottanta per cento dei loro atleti olimpici è in Italia. Accoglierli è stato il nostro orgoglio. Li abbiamo dichiarati tesserabili come cittadini. Spero che abbiano la testa, oltre che il corpo, per qualificarsi a Parigi».
Dopo Parigi scade il suo terzo mandato. Lei lascia, o si cambia la riforma di Lotti, che le vieta il quarto?
«Non lo so. Non brigherò certo io per cambiarla. Però mi faccia dire che è atipico che, a otto mesi da Milano-Cortina, scada l’intero comitato olimpico a cui pure si riconosce il merito di aver portato i Giochi in Italia».
Con lei scadono Petrucci, Barelli, Binaghi, Chimenti, Urso, Matteoli, Rossi, Abbagnale, Aracu, per dirne alcuni. C’è una nuova classe dirigente?
«Oggi non credo. Ma aspettiamo la fine del quadriennio per giudicare».
Se lei non si candida, Federica Pellegrini è la sua erede?
«Assolutamente no. Sarebbe troppo presto, lei non commetterebbe quest’errore. E non sono affatto convinto che lo voglia. Però il giorno che si metterà a fare una cosa, la farà molto bene».
Chi è l’atleta che prenderà la sua leadership?
«Non è facile dirlo. Perché la bravura conta fino a un certo punto. Ronaldo è più personaggio di Messi, ma forse non è più bravo. Una cosa è il campione, un’altra il campione personaggio. Di campioni ne abbiamo diversi, ma in questi ultimi cinque anni i testimonial più richiesti sono stati due calciatori, Totti e Buffon, una nuotatrice, Federica, e due atleti paralimpici, Alex Zanardi e Bebe Vio».
Non ha risposto alla mia domanda.
«Pensavo mentre parlavo. Dico Marcell Jacobs e Sofia Goggia. Loro hanno il senso della leadership».
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Lei crede che Jacobs possa continuare a vincere?
«Ci credo e ci credevo anche prima del 9”80 di Tokyo. Perché conosco la sua storia. Nei mesi precedenti alle Olimpiadi Marcell aveva avuto una progressione impressionante. Tutti sapevamo quanto valesse. Se c’era un dubbio, riguardava i suoi antichi problemi muscolari. Li ha risolti l’allenatore, Paolo Camossi, con la scelta coraggiosa di farlo concentrare sui cento, rinunciando al salto in lungo. Il resto lo ha fatto l’Istituto di Scienza dello Sport, progettando per lui la gabbia di plexiglas per proteggerlo in allenamento dalla resistenza dell’aria e consentirgli di utilizzare i muscoli a velocità più elevata».
Ma i successi di Tokyo sono replicabili in soli due anni?
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«Lavoriamo per questo dodici ore al giorno. Non c’è un solo atleta che non sia monitorato. E non c’è disciplina, e categoria all’interno di ogni disciplina, che non sia oggetto di un investimento specifico. La prima vittoria è qualificarsi il più possibile. L’aumento delle gare e la diminuzione degli atleti fa sì che la qualificazione in alcuni casi sia già un’ipoteca sulle medaglie. È stata la strategia vincente di Tokyo. E adesso si ricomincia».
Eppure a Tokyo hanno deluso alcune federazioni abituate a vincere.
«Per questo abbiamo impostato un lavoro di analisi che parte dall’ultima performance. Dal surf al triathlon siamo in grado di stimare l’andamento potenziale degli atleti nei prossimi anni. Il successo oggi ha tre coordinate: una propriamente sportiva, una scientifica, e una culturale che contiene le prime due. Non è un caso che sempre più dirigenti, preparatori e atleti olimpici siano laureati e specializzati. Penso a uno come Daniele Garozzo, oro a Rio e argento a Tokyo. Dieci giorni fa si è laureato in Medicina, e adesso fa la specialistica a Tor Vergata. Avete idea di che voglia dire allenarsi sei ore al giorno e preparare un esame?»
Perché nel calcio non accade?
«Non certo per la fatica sportiva. I calciatori non hanno una giornata più impegnativa di altri atleti. Ma vivono contesti culturali e condizioni economiche che non sono un incentivo».
C’è una relazione tra la crisi del calcio italiano il suo ritardo culturale?
«Sì, nel senso che il calcio è l’unico sport dove esistono ancora dinamiche padronali. Almeno in Italia. In Inghilterra il proprietario non ha mai una gestione diretta della società. Delega, conferma, ricambia. Da noi invece i presidenti se la cantano e se la suonano. Ricordo che, quando da commissario della Lega ho messo in moto la revisione dello statuto per avere un consiglio di amministrazione con presidente, amministratore delegato, consiglieri indipendenti, mi guardavano come uno che volesse violentarli.
Eppure giocavo in casa, c’era confidenza e stima reciproca, è gente a cui voglio bene e con cui vado a cena. Ma per loro l’ideale era continuare a mantenere la gestione dell’assemblea partecipativa, in cui si comanda in venti per non far comandare nessuno. Lo stesso accade all’interno delle società.
Chi vende i diritti tv non può essere la stessa persona che si occupa dell’erba del campo e del contratto dei calciatori. I bilanci parlano. E dicono che si è perduta la via maestra del risultato economico senza raggiungere traguardi sportivi. Perché Moratti, Berlusconi, e prima l’Avvocato hanno speso sì un sacco di soldi, ma almeno lo sfizio se lo sono tolto, alzando coppe da tutte le parti. Oggi abbiamo solo debiti e umiliazioni fuori dai confini. Guardi il livello, quantitativo e qualitativo, dei diritti tv. Pochi introiti e contenziosi à gogo. Ma dico io: gli americani, che del business sono maestri, sono stupidi a demandare tutto al commissioner»?
Gli americani fanno bene al calcio italiano? Anche quando le proprietà sono hedge fund come Elliott, che comprano e vendono solo per fare utili?
«Se non fossero arrivati loro, con finanza fresca, molti club sarebbero già saltati».
Ma perché i grandi imprenditori italiani girano al largo? Hanno paura di esporsi?
«Ce ne sono sempre di meno. Te lo immagini uno come Del Vecchio o come Armani, per fare solo due nomi, a infilarsi in simili dinamiche? Le grandi famiglie, quelle che restano, sono scioccate dal sistema».
giovanni malago e lavinia biagiotti foto mezzelani gmt 064
Le plusvalenze sono il buco nero del calcio. Il tribunale federale le ha salvate. Ma resta il problema di riannodare il valore finanziario a quello sportivo degli atleti. Come si fa?
«Equiparando costi industriali e stipendi ai volumi di fatturato. Guardando sempre agli americani, che, non a caso, praticano il salary cap. Non vuol dire disconoscere i meriti dei campioni. Ma coltivare il realismo e la saggezza del fare impresa. Una cosa mi colpisce. Il calcio è l’unica economia che ragiona al netto e non al lordo. Significa misurare la realtà sul desiderio e sul consumo, e non sull’investimento che c’è dietro per realizzarli».
Il suo racconto sembra la storia della Juve che paga 31 milioni di ingaggio a Ronaldo e, per non scontentare gli altri, alza lo stipendio di tutta la rosa.
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«Con un dettaglio che non trascurerei. I 31 milioni di Ronaldo si giustificano in parte con lo sconto fiscale previsto dalla legge sull’ingresso degli stranieri in Italia, l’aumento di altri ingaggi non ha invece alcuna pezza a colori».
Le élite del calcio hanno compreso il problema?
«Gravina sì, e molto bene. Il nuovo presidente della Lega, Lorenzo Casini, è un giurista: deve essere messo nella condizione di lavorare. Servono una nuova governance e nuove regole. E soprattutto armonia tra Federazione e Lega».
Perché non si fanno gli stadi in Italia?
«Anzitutto perché si teme che i proprietari non vogliano fare solo lo stadio, ma anche qualcos’altro».
I profitti non piacciono?
massimo moratti giovanni malago' silvio berlusconi
«Poco. Ma i tifosi dovrebbero capire che senza profitti le società muoiono. Poi, manca spesso quella che io chiamo una combinazione di pianeti: una proprietà, una piazza e una politica locale che vadano nella stessa direzione. Talvolta questa congiuntura astrale si trova, ma le procedure sono lente, e se cambia l’atteggiamento di anche una sola delle parti in causa, salta tutto».
A Roma adesso ci sono le condizioni politiche giuste? Oppure anche il Pd che governa sarà schiavo degli stessi fantasmi della giunta Raggi?
«Non ho parlato con nessuno degli amministratori. Hanno quattro anni e mezzo per chiudere questa partita. Se non lo facessero, sarebbero degli irresponsabili. Non c’è futuro senza una casa».
Per intanto c’è chi vorrebbe intitolare l’Olimpico a Paolo Rossi.
«Il giorno che ci fossero uno stadio della Roma e uno della Lazio, e l’Olimpico fosse l’impianto della Nazionale, sarebbe naturale dedicarlo a lui. L’ho detto anche alla moglie Federica».
La Superlega può essere una cura ai mali del calcio?
«Mi chiedo se la Champions non lo sia già, una Superlega. Avete visto il solco che si sta scavando, in termini di introiti, tra le squadre che vi accedono e quelle che restano fuori? Non mi sembrano maturi i tempi per creare un’ulteriore dinamica di upgrade. Non facciamo gli ipocriti, è normale che un azionista ci provi per dare una sistemata a bilanci disastrati. Ma non per questo la Superlega diventa sportivamente accettabile. La mia stella polare è il CIO. Se fai un campionato fai-da-te, alle Olimpiadi non ci vai».
Ma ha senso un campionato di serie A che venda alle tv straniere partite come Empoli-Spezia o Salernitana-Venezia?
«Certamente no. Bocciare la Superlega non vuol dire non cambiare niente. Ma il contrario».
MARCELL JACOBS GIANMARCO TAMBERI GIOVANNI MALAGO
Playoff e playout?
«Perché no. Certo, non con venti squadre».
Tempo effettivo?
«Sì con convinzione. Non sopporto di vedere calciatori per terra che simulano fratture multiple, o giocatori sostituiti che escono dal campo al ralenti. Il tempo effettivo promuove la lealtà sportiva».
Var a chiamata?
«D’accordissimo. La tecnologia è utilissima, ma va usata meglio».
La preoccupa il fatto che settanta giocatori su cento in Italia siano stranieri e che non ci siano maglie da titolari per i giovani?
STEFANO MEI MARCELL JACOBS GIANMARCO TAMBERI GIOVANNI MALAGO
«Più di ogni altra cosa. Sui banchi delle scuole italiane ci sono 172 mila persone in meno rispetto a quindici anni fa. Il calo demografico è complice dei vivai fatti di soli stranieri e della crisi di competitività del sistema. In altre parti del mondo accade il contrario. Ci sono paesi con boom demografico e cultura calcistica monotematica. O ci attrezziamo, o finisce un’egemonia sportiva che è parte della nostra cultura. Non deve accadere».
Il calcio può fare un’inversione di 180 gradi nel tempo che ci separa dal prossimo Mondiale?
«Non credo realisticamente. Ma basterebbe qualche incentivo finanziario ai vivai per tornare a far crescere un po’ di talenti nostrani. Qualcosa cambierebbe».
Lei ha detto che Gravina ha fatto bene a confermare Mancini. Perché?
«Perché ha vinto l’Europeo in discontinuità con la crisi che qui raccontiamo. E perché cambiare sarebbe stato un salto nel vuoto».
malagò eletto per la terza volta alla presidenza coni
Ma adesso ci vuole un’altra squadra?
«Questo lo decide il ct. Però, da tifoso, mi stupirei se Immobile non avesse più spazio in Nazionale. Lo considero di gran lunga il più forte centravanti italiano».
Se fosse Friedkin, riporterebbe Totti alla Roma?
«Sì, senza alcun dubbio».
Accadrà?
«Non è sicuro, ma è probabile».
malago e totti circolo canottieri aniene 5
Dopo due anni d’inchiesta, lei è stato prosciolto dall’accusa di falso nell’indagine sull’elezione di Gaetano Micciché a presidente della Lega calcio. Come ha vissuto questa esperienza?
«All’amarezza ci si abitua. Un po’ di fatalismo oggi e un po’ di ottimismo domani. Però ho capito che, quando ti cade sulla testa un avviso di garanzia, la prima cosa da fare è andare a parlare con il magistrato che ti indaga e raccontare tutto quello che serve».
Lei lo sa che non è concesso a tutti?
«Nel mio caso ho potuto farlo. E tuttavia sono passati da quel momento due anni. Perché, se anche tu chiarisci tutto, devi aspettare che l’intera indagine si chiuda. Ineccepibile tecnicamente. Ma discutibile a livello umano».
giovanni malagò foto mezzelani gmt010 bach malagò