Lettera di Pierluigi Panza a Dagospia
Quanti maiali valeva Palladio? Per un mese nel cantiere della Basilica (palladiana) di Vicenza l’architetto prendeva un corrispettivo di quasi due maiali “mezanotti”, ovvero di media taglia, ovvero poco più del costo di un gradino della stessa Basilica, pari a tre ducati, ovvero un maiale, ma niente a che vedere con un arco, che di maiali ne costava sei.
Lo studio è “scientifico” e raccontato nella mostra vicentina “La fabbrica del Rinascimento”. Si basa su una intuizione dello storico dell’economia Reinhold Mueller: poiché nel Rinascimento circolavano troppe monete con valori diversi anche a seconda dei luoghi, per stabilire un valore paragonabile tra le cose è necessario fissare un prodotto simbolo come base di analisi e comparare ciascun pagamento in monete al suo prezzo d’acquisto.
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I curatori della mostra hanno preso il maiale “mezanotto” che, per la cronaca, vale 50 volte un pollo (allevato a terra, si direbbe oggi) che costava 10 marchetti vicentini e hanno studiato quanti maiali sarebbero serviti per acquistare beni e altre utilità: alimentari, oggetti d’arte o di pregio, stipendi.
Ne escono risultati divertenti, poiché a fianco di ogni oggetto esposto sono riprodotti tanti maialini quanti ne sarebbero serviti per l’acquisto in base al valore di allora, nel Cinquecento veneto.
Alcune cose si sapevano, ma osservate dalla parte del maiale fanno impressione. Con i dipinti, come direbbe Giulio Tremonti, non si mangiava maiale o se ne mangiava poco.
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Il “Ritratto di due cani” di Jacopo Bassano (1548-1550) vale meno di un maiale, solo 0,80. E persino una grande pala d’altare come il “Martirio di Santa Caterina”, sempre di Bassano, non vale un granché: circa due maiali e mezzo, ma solo perché ci sono tanti personaggi dipinti.
Il libro illustrato di un medico senese lo potevi scambiare con mezzo maiale. Sembra una miseria, ma tenete conto che il 12 ottobre 1563 per una cena tra amici, con Palladio tra questi, chi invita spende tre troni e cinque marchetti: un sesto di un maiale (ma hanno mangiato pesce e non maiale).
Ma se quadri, libri valevano poco, e un camicione di manifattura tessile tanto quanto il “Martirio di Santa Caterina”, cos’è che costava un sacco di maiali? Delle cose che, forse, nemmeno metteremmo in camera da letto, il cui valore era determinato da tre aspetti: rarità, tipo di materiale, quantità di ore lavorative necessarie a realizzarlo.
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Al primo posto sta una croce di cristallo (1520-25) dell’orafo Valerio Belli alta 37 centimetri che da sola vale un intero porcile: il corrispettivo di 333 maiali (e vederli lì tutti in fila…).
Al secondo posto i busti romani, ma se intatti; altrimenti il numero di maiali scende considerevolmente: un busto del II secolo vale 100 maiali. Ma anche dove ci sono ore di lavoro e materiali pregiati devi sganciare un porcile!
Due insignificanti altorilievi in bronzo di Tiziano Aspetti (1592-93) valevano 250 scudi che sarebbero 90 maiali mentre un arazzo di Manifattura Rost su disegno di Andrea Schiavone (un “San Marco che risana Aniano” 1550-51) la bellezza di 66 maiali mezzanotti e mezzo.
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Capito? La bellezza non contava un tubo, tanto meno ispirazione, spiritualità, genialità creativa o altri parametri che il Romanticismo tirerà in ballo. Fare lavoro, vedere maiale. Fine. Altrimenti ti devi accontentare di una cesta di insalata, che vale un cinquecentesimo di maiale, maiale che costava quanto una spada comune, di quelle che servivano per sgozzare un maiale.
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