simone bergantini"how to dance rave music"
MICHAEL STIPE non è solo musica per le orecchie, forse la sua stessa musica non è mai stata solo canzoni rock per ascolti leggeri. Il leader dei R.E.M. sembra aver varcato un nuovo palcoscenico nella vita a passo casalingo, un contraltare creativo che da anni si plasma nel rituale visivo della fotografia, ragione ultima di sguardi e consistenza interiore. Con il marchio bolognese Damiani ha editato tre volumi dal 2018 ad oggi, tre raccolte che racchiudono un personale diario spaginato su mondo, radici, punti fermi, persone, spazi, forme, memoria.
Tre libri che tracciano percorsi dentro l’animo inquieto del musicista di Athens (Georgia), uno che nel brano costruiva sequenze di vertigine filmica, come singoli passaggi da un ideale finestrino di macchina lungo l’America dei sogni infranti, del disastro sociale, della povertà, degli emarginati in cerca di luce. Nel suo incedere ricettivo si sente il cinema marginale di Roberto Minervini e Chloé Zhao, l’approccio fotografico di Larry Clark e Wolfgang Tillmans, il clima videologico di Jonas Mekas e Agnes Varda, la letteratura sperimentale di William Burroughs, la filosofia trascendentalista di Henry David Thoreau…
Michael Stipe ha fatto qualcosa che difficilmente accade coi musicisti, ovvero, ha fatto suonare le immagini con il pentagramma delle note mentali, offrendo al pubblico il suo sguardo nascosto, lo spartito digitale dei suoi scatti sporchi, la parte in divenire del suo essere un raro musicista nato dalle immagini, maturato nelle immagini, rinato nelle immagini.
Volume 1, realizzato in collaborazione con l’artista Jonathan Berger e il designer Julian Bittiner, è uscito nel 2018 (oggi è sold out) e raccoglie 35 fotografie, selezionate da un archivio di oltre trent’anni con la macchina fotografica appresso. Stipe mescola volti noti, amici, corpi denudati, storie personali e schegge di mondo, la riprova di una frammentazione che parte sempre da un modo di essere, non solo attorno agli altri ma in aderenza agli altri, ad un passo dalle interferenze sensoriali, dagli odori che stordiscono il cervello, dai rumori che aprono le porte del personale purgatorio.
Our Interference Times: a visual record, uscito nel 2019 sotto la guida dello scrittore Douglas Coupland, riprende il filo dalle tracce fossili del primo volume, continuando ad immergersi nel proprio archivio fotografico, un gigantesco serbatoio di memorie traccianti e narranti, esigui frammenti di una vita in cui il suono cerca le immagini e viceversa.
Una carriera verso la fama ma anche verso la fuga interiore, verso lo spazio della meditazione domestica, verso le spinte atomizzanti della propria sessualità. Nel libro si nota la permeabilità agli stimoli ambientali, un richiamo verso i margini della natura e i bordi delle città, negli scarti del consumo, nel declino delle merci e dei simboli epocali, tra geografie di polvere, crepe dissonanti, solitudine rumorosa, silenzi panoramici.
Michael Stipe è il titolo del terzo volume da poco in libreria. Qui qualcosa sembra cambiato rispetto ai due precedenti, si sente l’esperienza pandemica come spartiacque tra l’idea aggregativa di ieri e la resilienza ascetica delle ultime foto, capeggiate da una Tilda Swinton in copertina che, dentro un’atmosfera di ghiaccio e inchiostro, ci guarda con serena levità, dentro un bianco astratto che è purezza e meditazione, frangente silenzioso in attesa di ritrovare il dialogo ravvicinato, di nuovo a contatto di pelle, nel clima sporco che caratterizzava i volumi precedenti.
Anche qui gli umani rimangono vulnerabili, cuori di vetro che Stipe coglie come fossero frasi di una canzone corale, brandelli essenziali di passione e posizione nel mondo, ricordandoci che tutti hanno il proprio posto e un proprio sguardo privilegiato. Scorrono i corpi di John Giorno, Joan Jonas, Kirsten Dunst, Beth Ditto, Gus Van Sant, Sam and Aaron Taylor-Johnson, Helena Christensen, Michèle Lamy, Sophie Calle e, appunto, Tilda Swinton… scorrono anche i nomi di personaggi amati, maestri di vita e sguardo, riferimenti che Stipe trattiene mentre affiorano sulla pagina, come fossero orchidee rare che si fissano su vasi e libri, incidendosi sulle superfici della scultura e della letteratura, i due pianeti che curano (o almeno ci provano) le malattie del cuore e le debolezze del pensiero.
michael stipe tilda swinton copertina del libro
A proposito, inquadrate il QR Code nell’ultima pagina e ascoltatevi le 16 tracce audio di Michael Stipe: in un attimo il libro torna alle ragioni sonore delle ispirazioni iniziali, riconnettendosi ai testi musicali di una lunga carriera, calibrando le vicinanze ascetiche tra musica e fotografia. La voce come ponte tra suono e immagine, il private speaking come terzo elemento di un’opera dalla misura fossile, sorta di passaggio geologico che si predispone al futuro con la forza degli archetipi sentimentali.
michael stipe tilda swinton (pagine interne)
SIMONE BERGANTINI parte da un assunto fotografico e si avvicina ai brani musicali senza mai farne esperienza d’ascolto lineare. A differenza di Stipe che nasce musicista mentre la fotografia aumenta la sua panoramica interiore, Bergantini nasce e cresce fotografo, uno dei più talentosi della sua generazione. Similmente al musicista di Athens, il nostro artista compie un salto nel vuoto del linguaggio complementare, cercando la (impossibile) visualizzazione del suono elettronico, attraversando il mondo techno della rave culture, uno dei movimenti più inclusivi e globali degli ultimi decenni. In realtà Bergantini ha elaborato un “falso” manuale di posture da dancefloor, fotografando corpi giovani che danzano nel paesaggio in esterni, tra periferie, campagne e prati su cui imprime la radice di una liberazione collettiva, ancor più necessaria dopo tredici mesi di coprifuoco e distanziamento.
michael stipe dal libro "michael stipe"
How to dance Rave Music (prodotto da Galleria Giampaolo Abbondio in occasione della personale presso l’omonima galleria a Milano, in corso fino a giugno 2021) è un oggetto strano e prezioso, un manuale dal calibrato bianconero che presenta singole sessioni in sequenza, lungo l’idea di un’anarchia sonora dove il bpm regola la catarsi del corpo cosmico, liberato nel ciclo elettronico del basso sequenziale. Non esiste alcun brano ad accompagnare il libro ed era giusto così: perché siamo noi spettatori a diventare musica, completamento non filologico che nasce dalle nostre colonne sonore, dai privati legami con il mondo techno, dal nostro modo di immaginare oltre l’immagine.
Il vostro marziano sta sfogliando le pagine mentre sfoglia idealmente i suoni di Detroit, la minimal cosmica di Richie Hawtin, il genio post-tribale di Ricardo Villalobos, le ritmiche eterogenee di Andrew Weatherall, gli incastri geometrici di Autechre, le pulsioni rapidissime di Squarepusher… mi fermo qui mentre la musica sale di volume lungo le risoluzioni fotografiche di Bergantini, mentre i ragazzi e le ragazze ballano da fermi, solitari ma non soli, guerrieri muscolari che disegnano linee invisibili, sculture plastiche di un mondo che vuole ballare, di nuovo sulle piste sudate, uno addosso all’altro, sentendo l’odore dei sensi accesi, ascoltando quei suoni astronomici che creano comunità, ragionamenti, culture.
michael stipe copertina del libro uscito nel 2019
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