Manuela Gandini per “La Stampa – TuttoLibri”
È un'immersione integrale negli anni più promettenti, eccitanti e pericolosi del secolo scorso. È l'America che sogna, produce, consuma pellicole e ketchup. È l'America che muore insieme a John F. Kennedy in una tiepida giornata di novembre del 1963 a Dallas. E che manda i giovani al macello, nel Vietnam, trasformandoli in assassini o vittime.
American Art 1961-2001. Le collezioni del Walker Art Center, in corso a Palazzo Strozzi a Firenze curata da Arturo Galansino e Vincenzo De Bellis, ricostruisce il sapore di un'epoca contradditoria e mitica racchiusa nei capolavori degli artisti americani.
Mark Rothko e Louise Nevelson, con due opere intense, cupe, monocromatiche, ci introducono nella sala dell'esplosione pop. L'ingresso agli Anni 60 è stretto ma si spalanca su un grandissimo salotto borghese stilizzato e accogliente di Roy Lichtenstein, facile e invitante come un cartoon, che si rivela essere lo studio di Matisse modernizzato.
Al centro invece dal soffitto pende un monumentale e flaccido sacchetto di patate fritte di Clas Oldenburg. Welcome nel Luna-Park-America, dove tutto è gioco, dai prodotti industriali ai prodotti spettacolari e catastrofici. Del resto, Emily Dickinson scrisse: «Uccidiamoci - visto che non è altro che un gioco».
E così vediamo Warhol appiattire il mondo, che si fa sempre più bidimensionale, e mettere tutto sullo stesso piano azzerando le differenze e ripetendo meccanicamente le medesime immagini.
«Se da un lato morte, incidenti e violenza sono argomenti di natura universale - scrive Nikki Kane in catalogo - dall'altro l'interpretazione offerta mediante la reiterazione di immagini tratte dai mass-media "americanizza" questi temi, ponendoli in relazione ad altri soggetti di più chiara matrice pop.
Le opere sulla sedia elettrica, le serie dedicate alle celebrità dal tragico destino, come Jackie Kennedy e Marilyn Monroe, oppure le auto incidentate e le morti da intossicazione alimentare sono tutte figurazioni che vanno a corrodere quel senso di benessere e sicurezza figlio degli ideali americani di glamour e consumismo.
La sedia elettrica come strumento di morte prettamente americano, procedura meccanizzata di porre fine alla vita, è un simbolo cupo, silente e violento dell'America del XX secolo, perfettamente leggibile agli occhi di un pubblico non-statunitense».
E le Sedie elettriche, di Warhol, dai colori pastello, sono esposte di fronte a due scritte allegre e profondamente angoscianti che spiccano nella loro colorata veste grafica: «EAT» e «DIE», mangia e muori, un dittico di Robert Indiana, intitolato The Green Diamond Eat The Red Diamond Die (1962), il diamante verde mangia, il diamante rosso muore. «Pop è amore, perché accetta tutto. - ha scritto Indiana - Pop è sganciare la bomba. È l'American Dream, ottimista, generoso, naif».
Ma il viaggio americano continua nelle conquiste sociali e nella sperimentazione di artisti quali Merce Cunningham e la sua compagnia, la Merce Cunningham Dance Company Charles Atlas. Per il ballerino ogni gesto quotidiano è danza come per Cage ogni rumore è musica.
Tra Cunningham, Cage, Rauschenberg e Jasper Johns vi è l'impronta irrinunciabile di Marcel Duchamp. Johns, per lo spettacolo Walkaround Time (1968), chiede a Duchamp di realizzare la scenografia, l'artista francese accetta ma delega a lui la realizzazione. Johns produce i sette elementi gonfiabili trasparenti, esposti, scomponendo il «Grande Vetro».
Dall'esperienza New Dada scaturisce la nascente identità americana, di poco antecedente il Minimalismo. Se vi sono apparenti contraddizioni tra le forme espressive prodotte dalla nuova generazione post-beat e post-espressionista, si tratta in realtà solo di un diverso modo di percepire la società del benessere.
Alcuni artisti, come Ellsworth Kelly, trasformano in colori vivaci e forme astratte i comuni sentimenti dell'uomo americano che si potrebbe identificare nella bandiera di Jasper Johns.
C'è tra tutti un senso di solidarietà. Il mercato e il collezionismo non hanno ancora un impatto forte e i linguaggi cominciano a contaminarsi. Ogni nuovo materiale, ogni forma industriale, ogni elemento solido, liquido o gassoso, diventa centrale nella produzione artistica.
Tra i minimalisti c'è un tale Dan Flavin che compra materiali ordinari a Canal Street a New York. E usa i neon fluorescenti, monumenti che «sopravvivono solo finché il sistema di illuminazione funziona, cioè 2.100 ore. Distaccato da ogni tipo di emotività, Flavin punta al concetto nudo e crudo.
Le luci delle sue stanze, banali prodotti in commercio, creano stati d'animo e cambiano la percezione della realtà, smussano gli angoli e dilatano lo spazio e il tempo. Il suo lavoro è fatto di geometrie, linee parallele, perpendicolari o diagonali. Donald Judd, Sol Lewitt, Carl Andre, progettano forme squadrate, aniconiche, geometriche che mostrano l'altro lato del consumo, lo scheletro dell'industrializzazione e della modernità.
Bruce Nauman, a cavallo tra i linguaggi, è radicale, impertinente, eclettico, totalmente solitario e vorace e ci introduce alla progressione della mostra verso gli Anni 80. Siamo in pieno edonismo reaganiano, incombe la tragedia dell'HIV, l'omofobia, l'annullamento del valore della cultura.
Robert Mapplethorpe fotografa ambienti sadomaso e muore a 34 anni. Felix Gonzales Torres dissemina la città di grandi manifesti che raffigurano un letto matrimoniale sfatto, è un omaggio alla scomparsa del suo compagno Ross. L'artista mostra all'America ciò che l'America non vuole vedere. E arrivano gli Anni 90, la ricerca si sposta su sessismo e discriminazione razziale.
Gli occhi terrorizzati di Cindy Sherman che mette in scena se stessa nei panni di una donna che sta forse per essere aggredita sono sintomo della violenza di genere. I cowboy di Richard Prince, le pin-up mezze nude sulle motociclette, i cavalli, le Marlboro, esprimono la semplicità dell'immaginario dominate, pubblicitario della middle-class della provincia. Nell'impasto sempre più promiscuo di situazioni sociali al limite, emerge la coscienza sporca dell'America, messa in luce dalle rivendicazioni degli afroamericani e dalla necessaria affermazione di artisti e artiste di colore.
Lorna Simpson, con Wigs (portfolio), mostra le pettinature delle donne nere, attraverso foto stampate su feltro, di parrucche in vendita al Fulton Mall di Brooklyn. Da questa serie del 1994, l'artista sottrae la figura femminile, sempre ritratta di spalle, e propone un inventario muto di capigliature.
Anche le donne di Kara Walker non sono riconoscibili perché anonime silhouette che raccontano storie strazianti di razzismo e violenze nell'era della schiavitù. Hock E Aye Vi/Edgar Heap of Birds è un indiano cheyenne che espone 40 targhe con i nomi di altrettanti nativi, condannati a morte dal governo americano l'indomani del conflitto con la tribù Dakota, sulle rive del Minnesota nel 1862.
La mostra è critica e vivace ma risente della mancanza della vitalità e dell'energia ribelle del gruppo Fluxus che, tranne in pochi casi, non è rappresentato.
Il viaggio è esaltante e triste al contempo, scoppiettante e funesto, pieno di cortocircuiti messi in luce dagli artisti delle ultime generazioni. Le comunità LGBT, le donne e le minoranze etniche, hanno ormai la propria rappresentanza.
Tuttavia, la metastasi della xenofobia serpeggiante nella provincia Usa si percepisce ancora. L'opera di Paul McCarthy è uno specchio: foto del Führer, svastiche e guerra, miste a immagini rassicuranti di case borghesi, statuette di Topolino, foto di bambine ariane, casette sudtirolesi un mondo apparente incantato all'insegna della «sicurezza».
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