Cristina Marrone e Clarida Salvatori per www.corriere.it
Sono sempre stati attenti. Hanno sempre usato tutte le precauzioni. Non hanno mai tenuto comportamenti rischiosi. Eppure si sono ritrovati contagiati dal Covid-19 e ricoverati in un letto di ospedale. E hanno trascorso quei giorni in corsia a riflettere su dove siano venuti in contatto col virus e come abbiano potuto contrarlo. E l’unica risposta che si sono dati è legata alle superfici, magari non perfettamente disinfettate: un cellulare, la maniglia di una porta, il tastierino di un ascensore. Ma non ci sono evidenze scientifico-sanitarie che sia davvero così. Si tratta solo di supposizioni dei singoli pazienti.
Particelle del coronavirus SarsCov2 sulla superficie di una cellula
Il contagio con un telefono?
Di questi casi ne capitano sempre più spesso, specie in questa seconda ondata. È quanto ha raccontato ad esempio il comandante provinciale dei carabinieri di Bergamo, Alessandro Nervi, 51 anni, che a suo avviso si è ammalato passando il telefono a un conoscente che poi è risultato Covid positivo.
«Ho sempre indossato la mascherina, ho tenuto le persone alla giusta distanza, non sono stato per più di 15 minuti con la stessa persona in presenza, ho tenuto la finestra aperta per arieggiare l’ufficio. Ma ho fatto quel semplice gesto: ho passato ad un amico il mio telefono con una videochiamata. Io avevo la mascherina, lui stava fumando. Poi ho disinfettato le mani, ma il telefono no. Due giorni dopo, l’amico mi ha avvertito via sms che il suo tampone molecolare era positivo». Pochi giorni dopo i sintomi compaiono e il test conferma il contagio.
Contagio in ospedale
Un po’ le stesse ipotesi di Luciano De Biase, 66 anni, cardiologo e responsabile dei 51 posti letto dedicati alla pandemia nell’ospedale Sant’Andrea di Roma. «Ho contratto il Covid-19. E da che ero medico, mi sono ritrovato paziente del mio stesso reparto. Sono finito in terapia intensiva e sono stato malissimo - ricorda - Come mi sono ammalato? Ci ho pensato tanto e ancora non riesco a darmi una risposta. Al lavoro sono sempre stato protetto, attento e prudente: tuta, mascherina, visiera, guanti, copriscarpe. L’unica risposta plausibile che mi sono dato è che io abbia toccato qualcosa, come una maniglia, e poi inavvertitamente mi sia stropicciato gli occhi».
Il contagio attraverso le superfici è raro
Il contagio da Covid all’interno degli ospedali che coinvolge sia pazienti sia operatori sanitari purtroppo non è una rarità e sono spesso i focolai nati in ospedale che preoccupano.
Con le vaccinazioni di medici e infermieri le cose dovrebbero andare progressivamente meglio. «Moltissime persone ricoverate non hanno idea di dove si siano contagiate, sostenendo di essere state sempre molto attente, mantenendo alla lettera tutte le precauzioni» conferma il virologo dell’Università degli Studi di Milano, Fabrizio Pregliasco.
Tuttavia il contagio attraverso le superfici, pur non essendo escluso, è considerato molto raro. Il coronavirus può resistere spesso inerte su maniglie e pulsanti. Diversi studi nel corso dei mesi hanno trovato tracce di materiale genetico di Sars-CoV-2 praticamente ovunque, ma questo non implica che il coronavirus sia attivo e ancora in grado di infettare. Le particelle virali non resistono per molto tempo fuori da un organismo e diventano via via meno pericolose.
Una ricerca rivelò tracce di coronavirus a 17 giorni dallo sbarco dei passeggeri a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera sulla quale si era diffuso un focolaio, ma non era più in grado di contagiare. Basta comunque disinfettare a fondo le superfici per evitare il contagio.
Laboratorio e realtà
Una serie di esperimenti hanno dimostrato che il coronavirus può resistere a lungo sulle superfici, ma questo non significa che le persone si stanno ammalando toccando pulsanti e maniglie.
Emanuel Goldman, un microbiologo della Rutgers New Jersey Medical School di Newark, nel luglio scorso ha scritto un commento molto puntuale su The Lancet Infectious Diseases, sostenendo che le superfici presentavano un rischio relativamente basso di trasmissione del virus, mettendo in guardia da certi studi svolti in laboratorio, dove vengono create condizioni difficilmente ripetibili nel mondo reale, con esperimenti che tengono conto di enormi quantità di virus.
Toccare una superficie appena contaminata, prima che il virus diventi inerte, per poi portarsi le mani sugli occhi o sul viso può comunque essere una via di contagio, ma gli scienziati la considerano molto rara.
La mascherina chirurgica non basta contro il contagio via aerosol
Anche la rivista Nature pochi giorni fa, con un lungo articolo e un editoriale ha sottolineato che troppi sforzi si concentrano ancora sulla sanificazione delle superfici, senza tenere conto di una realtà che si è scoperta con il passare dei mesi, e cioè che il virus è a trasmissione aerea: ci si può contagiare anche inalando piccole particelle di virus (aerosol) che galleggiano nell’aria a lungo prima di evaporare e non solo attraverso i droplets che per loro grandezza e peso cadono a terra entro i due metri di distanza.
Le ricerche degli ultimi mesi provano, in modo sempre più solido, che il coronavirus si trasmetta via aerosol: i luoghi più pericolosi — ormai è chiaro — sono gli ambienti chiusi, affollati, con scarsa ventilazione. Su questo aspetto, dunque — non su quello del contagio attraverso le superfici, su cui le prove sono pressoché nulle — molti scienziati stanno sollecitando interventi per prevenire o limitare la trasmissione del virus.
Va sottolineato che in aspirazione le mascherine chirurgiche hanno una scarsa efficienza sull’aerosol. «Per bloccare le goccioline di grandi dimensione l’aderenza perfetta non serve - spiega Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia) - ma le goccioline piccole invece sfuggono dai bordi. La mascherina deve sigillare il viso. Può essere una buona idea provvedere alla capacità filtrante con una mascherina chirurgica o FFP2 e all’aderenza al volto con una mascherina di stoffa messa sopra . Se si riesce ad aggiungere un tessuto che in qualche modo fa aderire meglio le mascherine, si raggiunge una protezione che arriva anche al 90 per cento».
Il «fattore tempo»
Oltre all’uso corretto delle mascherine anche il tempo di permanenza incide sul rischio di contagio. Ad esempio sull’app Immuni l’allerta scatta se ci si trova a meno di due metri da un contagiato per almeno 15 minuti (anche se per essere contagiati potrebbe bastare anche solo un colpo di tosse o uno starnuto, con tempo di esposizione ben inferiore ai 15 minuti).
Ma il Cdc americani (Centres for Disease Control and Prevention) hanno rivisto nelle loro lineee guida la «regola dei 15 minuti» che non vanno intesi come un tempo “consecutivo”, ma “cumulativo”: l’infezione può dunque avvenire anche con più contatti brevi, ma ravvicinati. Basta poco quindi per non rendersi conto di aver messo in atto, inconsapevolmente, un comportamento a rischio, senza per forza pensare a una maniglia o a un telefonino.