1) SCUSATE CI SIAMO SBAGLIATI !
VALENTINA CONTE e ROBERTO MANIA per “la Repubblica”
La decontribuzione non funziona più. Lo sconto per chi assume, ridotto ormai al 40% e limitato a due anni, è giunto al capolinea. I nuovi dati dell’Istat lo confermano.
Gli occupati a tempo indeterminato crescono dello 0,3% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), quelli a termine dieci volte tanto (+3,1%). I lavoratori autonomi scendono (-68 mila in un mese). Le imprese che dovevano stabilizzare i precari lo hanno già fatto, sfruttando il bonus. E tutta l’operazione sgravi-assunzioni peserà sulle casse pubbliche per circa 17 miliardi nell’arco di sette anni complessivi, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti.
Fine bonus
Le aziende ora sono alla finestra, in attesa di capire dove tira il vento dell’economia. Preferendo nel frattempo contratti a breve o a brevissimo (vedi il boom inarrestabile dei voucher). Ecco perché il governo è ormai pronto a fermare gli incentivi. Un cambio di strategia. «Che senso ha dare altro metadone di fronte agli ultimi dati sull’occupazione? », è la domanda ricorrente tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Si pensava di proseguire nel décalage (sconti di anno in anno ridotti), ma la realtà si sta imponendo. E chiama un ripensamento.
Così il governo punta su un’altra carta: quella della produttività, ferma da oltre un ventennio, la grande malattia del nostro sistema. Strategia in due tempi. Prima, nella prossima legge di bilancio, agendo sulla leva fiscale, ampliando la detassazione sui premi aziendali di risultato. Poi forzando sulla riforma della contrattazione, se sindacati e Confindustria non chiudono la trattativa. Un intervento previsto al massimo per gennaio, terminata in Parlamento la sessione di bilancio. Senza però toccare né il contratto nazionale né quello territoriale. Ma operando solo a livello aziendale, laddove le risorse pubbliche sarebbero quasi un miliardo l’anno.
Premi produttività
Priva di bonus e pure del taglio strutturale del costo del lavoro — promesso per il 2018 e al momento anche questo accantonato o meglio considerato non anticipabile — la politica economica del governo dunque sterza sul buco nero degli investimenti, tracollati di un quarto nella grande crisi. E nello stesso tempo decide di dare un segnale al ceto medio, diverso dagli 80 euro.
A Palazzo Chigi non girano cifre che ne certifichino il successo, ma lo sgravio sul premio di produttività reintrodotto quest’anno viene considerato una leva potente. E la decisione di rafforzarlo nel triennio 2017-19 — portando da 2.500 a 3.500 euro la soglia di reddito tassato al 10% e da 50 a 70 mila i redditi coinvolti, dunque anche una parte dei dirigenti — viene considerata una scelta tutta politica.
A un costo extra (da sommare al mezzo miliardo stanziato sin qui) accettabile: 137 milioni il primo anno, 309 nel secondo, 301 nel terzo. Ha funzionato, ne è convinto l’esecutivo, fino a produrre effetti anche sulle relazioni industriali a tutti i livelli, compreso il decentrato. Doppiamente utile.
Nuovo contratto
La contrattazione è materia delle parti sociali, ma fino a un certo punto. Perché c’è un miliardo di euro circa di denaro pubblico che serve a incentivare gli accordi aziendali. Dunque — è il ragionamento del governo — o le parti disegnano un nuovo modello contrattuale coerente con questa impostazione oppure sarà l’esecutivo a intervenire.
poletti martina padoan orlando gentiloni
Certo, l’accordo di luglio tra sindacati e Confindustria per rendere detassabili i premi di produttività, fissati nelle piccole imprese senza un negoziato, va esattamente in questa direzione. L’obiettivo è quindi depotenziare nei fatti il contratto nazionale spostando i benefici sul contratto in azienda. Il vantaggio sarà sia per le imprese che per i lavoratori: le prime pagheranno meno tasse, i secondi avranno più soldi in busta paga.
Ma il governo non esclude di agire anche su altri due capitoli: rendere possibile la derogabilità del contratto nazionale (come già prevede la legge Sacconi del 2011), sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa.
Sgravi per il Sud
Fondi Europei per il mezzogiorno
Lo shock da stop al metadone del Jobs act non sarà comunque privo di scialuppe di salvataggio. Specie nelle aree di crisi. Il governo pensa a soluzioni ponte per i 30 mila lavoratori che rischiamo di restare senza ammortizzatori sociali: un mix tra politiche passive (sussidi) e attive (ricollocazione).
Ma anche a un piano tampone per il Sud, confermando lì solo gli sgravi legati alle assunzioni per le categorie deboli (giovani, donne, disabili) e finanziati con i fondi europei. Una soluzione molto cara ai sindacati (soprattutto Cisl e Uil) e pure a Confindustria. Ci sono 8,5 miliardi nei Poc, i piani operativi complementari: una sorta di tesoretto locale che custodisce i risparmi del cofinanziamento di Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Si può poi attingere anche al Fondo sviluppo e coesione (lì giacciono 40 miliardi, compresi gli interventi antisismici e per infrastrutture).
Il modello può essere il Patto per il Sud firmato dal premier Matteo Renzi e il governatore Vincenzo De Luca, laddove la Campania ha deciso già per quest’anno di coprire il 60% che manca agli sgravi contributivi (e arrivare così al 100%) con il suo Por, ovvero fondi europei.
2) MENO POSTI DI LAVORO. IL PREMIER: “ABBIAMO MIGLIORATO LA SITUAZIONE”
BARBARA ARDU’ per “la Repubblica”
Un’Italia ferma, in attesa, con le famiglie timorose di spendere e le imprese indecise sul da farsi. È questa la fotografia economica che scatta l’Istat alla ripresa di settembre. Fermo il livello generale dei prezzi, che per i primi sette mesi del 2016 si arresta sullo zero, anche se a luglio l’indice che misura la discesa, è andato un po’ meglio. Anche il mercato del lavoro, a parte alcuni aggiustamenti, rimane sostanzialmente immutato nella composizione.
Va bene per i dipendenti over 50, un po’ meno per le donne, va male, anzi malissimo per i giovani: ben due punti percentuali persi sul mese precedente. C’è un primo stop alla crescita degli occupati a luglio ( — 63mila), che dopo quattro mesi di segno positivo preoccupa. Salgono gli inattivi, quelli che hanno dato forfait e il lavoro non lo cercano più (+53 mila). Calano partite Iva e collaboratori. Di contro la disoccupazione va giù all’11,4%, dall’11,6% di giugno.
Fermi, certifica l’Istat, anche gli stipendi. L’indice che misura le retribuzioni orarie è lo stesso del mese precedente e sull’anno segna un più 0,6% (e non c’è da sorprendersi visto che oltre il 68% dei dipendenti aspetta, da mesi, il rinnovo contrattuale). Le retribuzioni ferme non sono una buona notizia. Spingono l’allarme deflazione, cioè il calo continuativo del livello generale dei prezzi, che nel caso italiano si accompagna alla discesa della domanda: spendono in pochi.
sacconi poletti jobs act in senato
Ma se non aumentano i salari il livello generale dei prezzi ne risente, perché il salario è pur sempre un costo di produzione. Se è fermo, anche i costi aziendali sono fermi e così i prezzi. Un allarme che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, aveva già lanciato a maggio.
Ma sono i dati sulla disoccupazione a scatenare la polemica politica, con le opposizioni che attaccano e il premier Matteo Renzi il quale difende l’operato del governo con trenta tabelle che celebrano i 30 mesi del suo governo, paragonando l’”oggi” a “ieri”.
E il capitolo occupazione è ampio: gli occupati, passati da 22,180 milioni a 22,765 milioni. La disoccupazione che dal 13,1% è scesa all’11,4%. Anche il confronto sul dato della disoccupazione dei giovani è significativo: era 43,6%, è calata al 39,2%.
Le slides di Renzi raccontano tutti gli interventi in ambito economico: crescita del Pil dell’1%, introduzione del bonus di 80 euro al mese, riduzione del canone Rai a 100 euro. Su tutte le pagine uno slogan: “Numeri non chiacchiere”.
Lapidario Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. «Trenta slide colorate per dire niente...un confronto non meglio definito fra ‘ieri’ e ‘oggi’ ». La tendenza a un miglioramento sul mercato del lavoro però sembra rimanere positiva. «La crescita occupazionale dall’inizio dell’anno c’è — ha detto Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro alla Camera — anche se è la qualità del lavoro a diminuire».