Federico Ercole per Dagospia
Pone domande intime e strane la femminile voce misteriosa che mi interroga al suono liquido delle tante cascate che colano verso il fondo di un abisso spalancato tra i monti, nella malia di una visione onirica. Questioni alle quali devo rispondere con sincerità, senza ponderarle troppo a lungo.
Chiunque sia a pronunciare quelle parole vuole conoscere la mia mente di “eroe” pronto a cominciare una lunga epopea avventurosa: “invidi la libertà degli uccelli?”, “trovi impossibile rifiutare le richieste altrui?”, “fai spesso voli pindarici?”, “ti irriti facilmente anche per questioni irrilevanti?”, “quando l’ispirazione ti coglie metti subito in atto i tuoi pensieri?” e altre, compreso il mio vero nome e la mia data di nascita, non credo per inserirmi nei dati di una qualche compagnia di questo mondo, anche perché sono sconnesso e comunque uso malfido con la povera vocina magica un soprannome perché non si sa mai, ma rivelo il compleanno corretto affinché quella stabilisca il mio segno zodiacale.
C’è infine un’ultima prova, devo esaudire la richiesta di un anziano che mi chiede di spostare un masso. Dopo questa introspezione che stabilisce un’identificazione con il protagonista del gioco che è già profonda, perché qui dovrei essere proprio io e non qualcun altro con il suo carattere e le sue parole, comincia davvero il lungo viaggio del remake di Dragon Quest III per Playstation, Switch e Xbox, che uscì in origine nel 1988 per la prima console di Nintendo e ai tempi non fu mai pubblicato in Europa.
Si tratta di un rifacimento nel cosiddetto HD-2D, ovvero in quello stile splendente di una bellezza insieme nuova e antica che fu adottato per Octopath Taveller e il suo seguito o per Triangle Strategy.
Un ritorno più che necessario, persino urgente, per chi vuole vivere un gioco di ruolo giapponese che ha definito quello che ora è il classicismo del genere, un videogioco che può apparire vetusto nelle sue punitive meccaniche per chi non è più abituato alla loro complessità strategica e ad una certa astruseria di alcune di queste, ma che nella sua rinascita possiede innumerevoli facilitazioni, come un selettore di difficoltà e un salvataggio automatico che si attua dopo ogni battaglia, questo davvero utile e salvifico del tempo e dei “sacrifici” di chi gioca.
Non temete quindi questo Dragon Quest III, non equivocate la sua anima ancestrale per vecchiezza, perché grazie anche alla sua abbacinante nuova veste risulta una grande esperienza avventurosa, estetica e tattica.
PER IL VASTO MONDO
La trama di Dragon Quest III è minimale se rapportata a quelle così sofisticate dei Final Fantasy o di altri giochi di ruolo. L’eroe o l’eroina (non più maschio e femmina come nell’originale ma tipo A a tipo B, ma non è più “discriminante” se la donna è appunto “B”?) partono sulle orme dello scomparso padre del personaggio principale per sconfiggere la presenza diabolica che sta condannando all’estinzione il loro mondo, scatenando orde di mostri e demoni.
Tuttavia questa semplicità è ingannevole perché Dragon Quest, tranne che nell’undicesimo episodio che risulta più organico e profondo anche nel suo insieme narrativo, ha sempre brillato come raccolta di novelle e non come romanzo. Ogni città o paese racconta una sua piccola storia, molto spesso suggestiva: amanti che si uccidono affogandosi negli abissi i cui spiriti dovremmo infine riunire, regine indemoniate che sacrificano fanciulle, popoli addormentati dalle fate per punire l’amore proibito tra una di queste ed un essere umano, principesse-drago morenti...
Così viaggiamo in compagnia di altri tre caratteri predefiniti, senza una loro personale identità o storia, ma che vivono solo della loro classe e delle abilità che li contraddistinguono, ognuna delle quali è davvero fondamentale per superare battaglie a turni che sono sempre ostiche anche contro nemici minori e che diventano davvero ardue contro i vari “boss”, se non giocate in modalità facile, perché scegliere una mossa sbagliata significa Game Over ed è necessario che la propria squadra abbia il livello adeguato ottenibile attraverso un rigoroso “grinding”, ovvero la ripetizione faticosa ma gratificante dei combattimenti solo per salire di livello.
C’è anche la possibilità di cambiare classe, qui detta vocazione, ai tre personaggi supplementari che accompagnano quello principale, ma la consiglio solo al pubblico davvero “hardcore” perché richiede un immenso investimento di tempo (cambiando si torna al livello 1) sebbene possa rivelarsi davvero utile.
ARTE DI TORIYAMA
Come tutti i Dragon Quest anche questo è illustrato dal compianto genio di Akira Toriyama, scomparso pochi mesi fa. C’è stata una polemica recente sulle censure apportate post mortem ai suoi disegni, cosa che in effetti sarebbe sgradevole, anche se si tratta di cose minimali come l’aggiunta di pantaloncini a personaggi prima scosciati o la decolorazione delle grandi labbra dei troll che avrebbero potuto rimandare a stereotipi razziali.
Tuttavia come sottolinea Simone Tagliaferri sul sito Multiplayer, l’intervento sulla veste succinta sembrerebbe già del 2012 per altri videogiochi della serie e sono dovuti all’ottenimento di una classificazione “per tutti” dell’opera in questione. I disegni di Akira Toriyama mantengono comunque la loro preziosa identità, anche se è inquietante che una minima quasi nudità susciti censure tipo quelle di Daniele da Volterra detto il Braghettone.
Tanti videogiochi di ruolo giapponesi instaurano una dialettica critica e costruttiva con chi gioca a proposito del presente del nostro pianeta, riportandoci alla realtà attraverso la fantasia. Non Dragon Quest III che risulta invece una fuga, un distaccamento dolce e necessario per scivolare via dall’oggi inconsapevoli per qualche ora di epica e perdersi sollevati dall’incertezza e dall’orrore in quell’avventuroso tutto.
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