IL PADIGLIONE PARRUCCONE - NON L'HO VISTO E NON MI PIACE. DOPO ARTRIBUNE CONTRO TRIONE SCENDE IN CAMPO ANCHE EXIBART: PER CAPIRE CHI SIAMO NON SERVE UN "CODICE ITALIA" NE' IL RICHIAMO AL PASSATO
Raffaele Gavarro per Exibart
pubblicato giovedì 20 novembre 2014
La recente nomina di Vincenzo Trione come curatore del Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia, e soprattutto le sue prime dichiarazioni sulle intenzioni "di ragionare sull’identità italiana, di riscoprire quello che definirei il Codice Italia”, non hanno mancato di sollevare riflessioni e interrogativi sul senso e l’opportunità di una tale scelta.
Anche se, com’è già stato ricordato, qualcosa di analogo era già accaduto con il precedente curatore del nostro padiglione nazionale, Bartolomeo Pietromarchi, che era partito dalla convinzione che "esiste un’identità estetica e artistica italiana”. Come già scrissi a suo tempo su queste stesse pagine, quel padiglione non solo non riuscì in questo intento, ma mancò totalmente di cogliere lo spirito di un Paese in profonda crisi.
Immagino che a questo punto si debba parlare di un riflesso condizionato: se sei chiamato a curare il Padiglione Italia della Biennale di Venezia, non puoi non porti il problema di cosa sia oggi l’italianità. Non è una cosa in linea di principio errata, e naturalmente la bontà o meno del risultato la potremo giudicare solo dopo aver visto il nuovo padiglione e dopo aver letto i ragionamenti che l’avranno determinato.
E però, se il punto di partenza delle riflessioni sul tema coincide con quello proposto dallo stesso Trione nella sua mostra "Post Classici” nell’area del Foro Romano e del Palatino di Roma nel 2013, la questione allora fa drizzare immediatamente antenne e capelli, data l’evidente e grave asincronia che si manifesta da subito con il contesto generale dell’attuale produzione culturale nazionale e internazionale. Ricondurre l’identità dell’arte italiana alla pratica del "ritrovare” nella storia dell’arte le ragioni del proprio fare, trovando così un antidoto ai "disorientamenti del presente” (i virgolettati sono naturalmente citazioni dallo statement della mostra), appare infatti un tentativo almeno astorico che obbliga l’arte italiana a categorie estetiche e a problematiche che oltre a decontestualizzarla dalla scena dell’arte internazionale, semplicemente la separano dalla realtà in cui l’arte è. Il prefisso post di quel titolo impone poi giocoforza una continuità con un’identità postmoderna, ormai e da più parti data come conclusa, denunciando un approccio culturale perlomeno poco aggiornato. Ci manca solo che si parli di bellezza e buonanotte.
vezzoli portrait of sophia (after de chirico)
In un articolo apparso su Il Sole 24ore il 10 marzo del 2012, Riccardo Viale si domandava «Che cos’è l’italianità?» e diceva che «Il marchio di una nazione può essere analizzato attraverso molte caratteristiche diverse e classificabili, a grandi linee, in associazioni mentali, sensoriali, emotive e razionali. Stando ad alcuni studi, la decomposizione semantica di queste categorie mostra alcune specifiche del marchio Italia (Guerini, 2002): a. Sensoriali: arte, cultura, cibo, moda, automobili. b. Emotive: vacanze, bel tempo, buon cibo, bellezza, amicizie. c. Razionali: linguaggio, storia».
Si tratta di un novero abbastanza completo di vecchi stereotipi, che a ben vedere nella maggior parte dei casi non sono nemmeno più minimamente corrispondenti al vero.
Difficile ridurre la complessità del "chi siamo”, che è differente dal "come ci vedono”, ad elementi così schematici, e forse a questo punto dovremmo avere l’onestà intellettuale di iniziare dal "come ci sentiamo”. A questo proposito è inutile negare che spesso, dal secondo dopoguerra in poi, la nostra immagine riflessa dal cinema, dal teatro e dalla letteratura, è stata molto negativa, o comunque segnata da lucide e sferzanti visioni critiche, quando non impietosamente ironiche, cosa che tra l’altro e paradossalmente ne ha decretato un indiscutibile successo in patria e fuori.
Una teoria più o meno ininterrotta di opere che, solo per fare qualche esempio, comprendono quelle di De Sica, Fellini, Monicelli, Flaiano, Gadda, Pasolini, Arbasino, arrivando a Moretti, Sorrentino, Genna e Raimo, e che appunto raccontano dei vizi nazionali e del malessere che ne è conseguito. Ma di tutto ciò non, in effetti, c’è alcuna traccia nelle arti visive.
IL DITO MEDIO DI CATTELAN ALLENTRATA DEL PALAZZO DELLA BORSA A MILANO
Sfogliando velocemente un sommario elenco di artisti che potrebbe ad esempio comprendere Fontana, Burri, Manzoni, Castellani, Lo Savio, Pascali, Kounellis, Schifano, Mauri, Paolini, Boetti, Fabro, Merz, De Dominicis, Pistoletto, Cucchi, De Maria, Arienti, passando per l’ineffabile Cattelan, fino a giungere alle ultime e ultimissime generazioni, non si trovano riflessi analoghi nelle opere e nemmeno nei display delle mostre che le hanno esposte. E questo anche quando, e in modo sempre più frequente negli ultimi anni, l’intenzione dell’opera è esplicitamente politica o con chiaro riferimento al sociale e all’impegno pubblico.
Ma se non c’è un riflesso negativo dell’italianità in queste opere, che appunto le possa accomunare tra loro e con gli altri ambiti intellettuali, è anche difficile, se non impossibile, trovare tematiche comuni o anche omogeneità linguistiche e formali, anche quando gli artisti hanno partecipato agli ultimi movimenti di gruppo, riferendomi naturalmente all’Arte Povera e alla Transavanguardia.
L'Italia_Riciclata_di_Michelangelo_Pistoletto
Contano alla fine più i distinguo e le eccentricità dei singoli, che gli argomenti associativi. Trovare un minimo comune denominatore in un arco di tempo significativo, come potrebbe essere ad esempio un decennio, appare un’impresa impossibile. E questo decisamente vale ancora di più per gli ultimi vent’anni, partendo quindi dalla prima metà dei Novanta del secolo scorso e arrivando ai nostri giorni. Ma qual è la ragione di una simile frammentazione individualistica, che ha conosciuto dal dopoguerra in poi una tale escalation da raggiungere livelli di vero e proprio solipsismo nel nostro presente? È essa stessa un carattere significativo dell’italianità? Oppure semplicemente un impedimento alla sua definizione?