LETTERA-DURA AMERICANA - LE PAGELLE DI Harold Bloom, "il critico letterario più famoso e controverso dei nostri tempi": "Foster Wallace, un pessimo scrittore. Paragonarlo a James Joyce è semplicemente ridicolo - Salinger è tanto sottile da risultare irrilevante, salvo poi essere meglio di Harry Potter e Stephen King - Hemingway è un esperto di stile e un grande narratore, non nei romanzi ma nei racconti"...

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Alessandra Farkas per il "Corriere della Sera"

HAROLD BLOOMHAROLD BLOOM

Il libro di Harold Bloom, che in Italia sarà pubblicato da Rizzoli in autunno col titolo "L'anatomia dell'influenza. La letteratura come stile di vita", è stato salutato in America da un profluvio di elogi da parte dei più autorevoli critici letterari, molti del quali suoi ex studenti a Yale. Tra questi Sam Tanenhaus, capo dell'influente «Book Review» del «New York Times» che oltre a dedicargli una recensione stellare e a tutta pagina nell'inserto domenicale da lui diretto, ha intervistato l'ex maestro per un cliccatissimo video sul «NYT online» .

Per generazioni di americani cresciuti leggendo i suoi quasi 40 libri che hanno rivoluzionato la storia della critica letteraria mondiale, Harold Bloom è e resta, nelle parole di Tanenhaus, «il critico letterario più famoso e controverso dei nostri tempi» . Una sorta di celebrità, come oggi lo sono solo le star dello spettacolo, cui è bastato definire il suo nuovo libro «il mio canto del cigno virtuale» per gettare nell'ansia schiere di fan.

«Ho compiuto 81 anni l' 11 luglio, ma questo non sarà certo il mio ultimo libro» , li tranquillizza ora Bloom, appoggiandosi al bastone ormai onnipresente dopo la caduta che nel 2008 rischiò di ucciderlo, costringendolo ad abbandonare - ma solo temporaneamente - la cattedra di Sterling Professor of the Humanities and English a Yale. Il 15 agosto uscirà The shadow of a great rock, sulla Bibbia di Re Giacomo, e tra un paio d'anni sarà la volta di The Hum of thoughts evaded in the mind, che Bloom definisce «l'autobiografia di un lettore».

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''L'anatomia dell'influenza'', spiega, è un canto del cigno «nel senso che non scriverò un altro libro di tale portata» . Nel saggio di 357 pagine, Bloom rivisita gli autori che più hanno influenzato la sua vita da quando, a 10 anni, scoprì White Buildings del poeta Hart Crane («il mio primo amore» ) in una libreria pubblica del South Bronx. Il quartiere dove viveva coi genitori, poverissimi ebrei semianalfabeti provenienti dagli shtetl dell'Europa Orientale che in casa parlavano solo yiddish.

«Questo è il mio libro più personale, una sorta di memoir letterario- rivela- anche se dal mio debutto con Shelley's Mythmaking, nel 1959, fino ad oggi, sono sempre stato un critico letterario estremamente passionale. Come diceva il sublime Oscar Wilde, mia grande ispirazione, la critica letteraria è l'unica forma civile di autobiografia».

Proprio questo suo approccio viscerale gli ha procurato critiche nel mondo accademico americano dove molti non gli hanno mai perdonato le crociate contro gli autori post-sessantottini e politically correct, in nome di una letteratura intesa come epifania individuale, non riscatto socio-politico.

«Il rapporto tra il poeta e i suoi precursori è una vera guerra psicologica per affermare la propria visione originale», teorizzava in L'angoscia dell'influenza (un saggio uscito in Italia nei primi anni Ottanta al quale già nel titolo si richiama la nuova opera), dove l'invenzione letteraria diventa la distorsione creativa dei maestri da parte dei loro successori.

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Ma Bloom oggi prende le distanze da quell'opera, considerata da molti la sua più importante: «Non mi sognerei mai di rileggere i miei lavori giovanili perché dubito fortemente che riuscirei a capire che cosa quel tizio avesse in mente - afferma - quella persona non sono più io: non ha senso per uno scrittore difendere ogni suo libro».

Eppure i suoi grandi «amori» , oggi, sono gli stessi celebrati nel Canone Occidentale del 1994, dalla cui famosa «lista» Bloom ha più tardi preso le distanze: Omero, Chaucer, Cervantes, Molière, Lorca, Yeats, D. H. Lawrence, Petrarca, Leopardi, Tolstoj, Ungaretti, tanto per citarne alcuni. Cioè membri di una grande famiglia, dove i posti a capotavola spettano a Shakespeare e Whitman «le mie due grandi passioni» , su cui s'incentra L'anatomia dell'influenza. «Nel bene e nel male Whitman spiana la strada al mondo moderno» , teorizza.

Per quanto riguarda Shakespeare, «nonostante rivali come Omero, Dante e Cervantes, egli è l'unico che trascende davvero i limiti linguistici, storici e geografici» . «Non è solo un poeta della lingua inglese e neppure solo il poeta della tradizione occidentale - incalza Bloom - ma è il poeta e il drammaturgo di tutto il mondo e di ogni era: una presenza nel pensiero universale. Lo si potrebbe chiamare l'autore della terra ed è per questo che lo considero come Dio».

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Come mai l'era moderna non è stata in grado di creare un altro Shakespeare? «È come chiedersi perché il mondo non sia riuscito a produrre un altro Dante, o un altro Cervantes, o perché la tradizione narrativa e letteraria non ci abbia dato un'altra Iliade e Odissea. Non penso se ne possa parlare in termini di causa-effetto: si tratta piuttosto di un vero e proprio incidente cosmologico, unico, raro e inspiegabile».

Quasi un miracolo, insomma. «Nel sedicesimo secolo a Londra, una figura particolare non solo trascende chiunque, ad eccezione di Dante, come maestro della propria lingua, ma ha anche il dono, che in un certo senso supera Dante, di creare con la penna esseri umani.

Ti dà cento personaggi principali e mille personaggi secondari, che hanno tutti voci proprie, e soprattutto voci che continuano a cambiare» . Neppure Dante, ribadisce, riesce a tanto. «Ad eccezione del pellegrino stesso, nella Divina Commedia il giudizio sui personaggi è dato e non si può cambiare. Anche per le anime del Purgatorio sappiamo già quale sarà l'esito».

Tra gli scrittori americani viventi, solo quattro romanzieri hanno secondo Bloom «serie probabilità di sopravvivere» : «Il mio conoscente Cormac McCarthy, i miei amici Philip Roth e Don DeLillo e quel misterioso e affascinante signore che è Thomas Pynchon» . Ancora più scarno il panorama per la poesia: «Abbiamo un solo grande poeta vivente negli Stati Uniti che sopravvivrà al suo tempo: John Ashbery, e anche gli inglesi ne hanno solo uno: Geoffrey Hill» .

ERNEST HEMINGWAYERNEST HEMINGWAY

Bloom vorrebbe non parlare dei romanzieri contemporanei, «perché la gente poi si arrabbia con me» , ma non riesce a trattenersi. «Non è mia intenzione polemizzare ma ritengo che David Foster Wallace sia un pessimo scrittore. Paragonarlo a James Joyce è semplicemente ridicolo» . Solo lui può dire cose del genere senza temere ripercussioni da parte di un'industria editoriale che peraltro critica da anni. «Editori e riviste letterarie devono avere qualcosa di cui dibattere. Così creano l'illusione che ci sia un genio vivente negli Stati Uniti. Ma non è vero.

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Herman Melville ha scritto un grande libro con Moby Dick, Mark Twain con Huckleberry Finn e Nathaniel Hawthorne con La Lettera Scarlatta. Henry James, il più grande romanziere americano, ha lasciato sette o otto capolavori. Dopo di lui gli Stati Uniti hanno creato un genio in William Faulkner, che ha firmato il romanzo più originale e sensazionale del ventesimo secolo: Mentre morivo.

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Anche 'Meridiano di sangue' di Cormac McCarthy è un'opera splendida, sebbene lontana dal maestro, Faulkner» . Neppure Salinger passa l'esame. «Salinger è tanto sottile da risultare irrilevante, salvo poi essere meglio di Harry Potter e Stephen King» . Hemingway «è un esperto di stile e un grande narratore» , («non nei romanzi ma nei racconti» , puntualizza), mentre Scott Fitzgerald «è quasi altrettanto bravo» . Il mito del «grande romanzo americano» (titolo che il suo ex alunno Tanenhaus conferisce a Jonathan Franzen), secondo il noto critico «è da dimenticare».

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«Freedom può anche avere un valore sociologico, ma i personaggi sono solo nomi sulla pagina. Non hanno vita. Diciamo che Franzen non è Charles Dickens, come sostiene qualcuno» . Nonostante l'antipatia- reciproca- per le femministe, Bloom non dimentica la letteratura al femminile.

«Gli Stati Uniti hanno avuto un numero considerevole di donne in posizioni di potere - riconosce - e infatti il più grande poeta dopo Whitman è stata Emily Dickinson. Abbiamo avuto tante scrittrici di romanzi - Willa Cather, Edith Wharton, Flannery O'Connor, Eudora Welty, Elizabeth Bishop e Virginia Wolfe- brave ma non quanto le inglesi Emile Brönte, Charlotte Brönte, Jane Austen e George Eliot. E comunque non riesco a pensare a una sola autrice vivente, americana o inglese, dello stesso calibro».

 

 

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