Chi fu il poeta più erotico di fine Rinascimento e inizio Barocco? Sir Thomas Wyatt che scriveva di Anna Bolena? Shakespeare sulla voluttuosa “Dark Lady”? Non proprio. Si tratta di una donna, anzi una suora, Sor Juana Inés de la Cruz, la Fenice d'America, poetessa di punta della Nuova Spagna del diciassettesimo secolo. Una luminare del suo tempo dalla mente vorace, che consumava oltre quattromila libri, da Aristotle e Kircher. Totalmente autodidatta. Il suo nome è quasi dimenticato nei libri di storia, ma la sua faccia è sulla banconota messicana. In vita, la sua fama ha attraversato l’oceano. Ha composto anche trattati matematici, manifesti sociali, musica, libri in difesa del diritto all’educazione delle donne. Ora è uscita in inglese, edita da Norton, una nuova raccolta di sonetti su mortalità e decadenza, sulla lotta fra corpo e mente, schiavismo ed emancipazione. Include anche la sua Respuesta a Sor Filotea” del 1691, dove contestava il vescovo di Puebla, il quale sosteneva che i temi filosofici non erano affare femminile. La “Respuesta” le causò molti guai con la Chiesa Cattolica, in seguito dovette firmare con il sangue un voto di silenzio.
Nata nel 1651, da madre illetterata, terza di sei figli illegittimi, Juana sapeva leggere già a tre anni. A sei anni chiese di tagliarsi i capelli corti e di poter studiare all’università come era concesso agli uomini. Da adolescente diventò dama di corte per la moglie del Marchese de Mancera, viceré del Messico, il quale mise insieme gli uomini più dotti in circolazione per mettere alla prova la cultura di Juana, su storia, mitologia, letteratura, scienza. Lo spettacolo che la ragazzina diede ebbe eco anche in Europa: aveva passato l’esame come “un galeone reale che si difendeva da qualche imbarcazione a remi”.
Dal lusso stravagante e gli intrighi di corte, passò in convento. I motivi della scelta non sono chiari. Forse temeva il matrimonio (era bella ma aborriva l’idea), o forse sapeva che la sua famiglia non avrebbe potuto permettersi una dote. La prese come un modo per dedicarsi completamente agli esercizi della mente. La vita in convento non era troppo austera: c’era la servitù, aveva a disposizione libri rari, esotici oggetti d’arte, servitù, strumenti musicali e le era concesso di intrattenere l’élite di accademici e filosofi in un salone. Era dotta in tutto, teologia, legge astronomia, parlava dialetti precolombiani, latino, italiano (citava spesso Petrarca e Boccaccio).
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Suor Juana scrisse anche ardenti poemi amorosi per María Luisa, moglie del nuovo viceré. Quando perse la protezione dei regnanti, trasferitisi in Spagna, divenne bersaglio della Chiesa e dell’Inquisizione. Dopo la “Respuesta” le fu tolto il permesso di consultare libri e di pubblicare, fu privata del suo prezioso materiale scientifico, e firmò la sanguinosa confessione: «Tra tutti, io sono la peggiore». Morì nel 1695, in imposto silenzio.
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Il libro in uscita la libera nuovamente, pubblicando i sonetti del suo amore non corrisposto per una inafferrabile donna. Le poesie d’amore tra donne aristocratiche erano comuni all’epoca, ma dovevano restare nei confini dell’amicizia. I versi della suora, invece, erano infatuazioni pericolose. Le sue parole sono di gelosia, ossessive, intensamente fisiche e carnali. Descrivono il collo, i fianchi, le membra della sua adorata. La poetessa è un’avida schiava: «L’amore, mia signora, non trova in me alcuna resistenza e manda in fiamme il mio cuore esausto», «Amarvi è un crimine per cui non farò mai penitenza. Non importa se voi eludete i miei abbracci, mia cara, perché il solo mio pensiero può imprigionarvi».