Franco Bechis per “Libero Quotidiano”
IL CADAVERE DI ALDO MORO NELLA RENAULT 4 ROSSA
Filippo non c'è più. Se ne è andato quattro anni fa, il giorno di Natale nelle sue Marche dove finalmente era tornato. Aveva 77 anni, un brutto male e una ossessione: una macchina. Quella macchina. La sua prima auto, e in fondo anche ultima visto che l'aveva ancora e aveva ormai 40 anni. Come poteva dimenticarla?
Era bellissima il primo giorno che se l'è trovata davanti arrivato - emigrato - a Roma. Rossa fiammante, quei sedili dietro ribaltabili che se eri in coppia potevi partire per la vacanza più lunga della tua vita caricandola fino al tetto che potevi resistere settimane, mesi. Filippo nella capitale era venuto per cercare di fare un po' di fortuna. E sembrava essergli riuscito: aveva messo su una piccola azienda che lavorava nell' edilizia stradale.
LA RENAULT 4 ROSSA IN CUI FU TROVATO IL CADAVERE DI ALDO MORO
Quella macchina rossa- una Renault- l'aveva presa per l' azienda, dicendo fra sé e sé: il week end la uso con la famiglia, ci porto su Annarita, la figliola da poco nata. Certo, bisognava ripulirla un po' prima di farci le scampagnate e magari una puntatina a Dignano, a Serravalle di Chienti, provincia di Macerata.
Durante la settimana nel bagagliaio si trasportava bitume e sabbia con cui asfaltare le strade. Lavoro non ne mancava, anche se allora le strade di Roma non erano piene di buche e voragini come ora. Merito pure di Filippo e di quelli come lui, che avevano coscienza e quando buttavano giù il catrame era di primissima scelta, non quello farlocco di questi anni.
LA TRISTE SCOPERTA
LA RENAULT 4 ROSSA IN CUI FU TROVATO IL CADAVERE DI ALDO MORO
Che meraviglia quella Renault rosso fiammante, che univa lavoro e famiglia. E che dolore quel mattino di fine marzo del 1978 quando Filippo andato ad acquistare degli attrezzi di lavoro tornò a prendersela dove l'aveva parcheggiata, sul Lungotevere. Cercala qui, cercala là: «e che, mi sono rincitrullito? Sono sicuro, l'avevo parcheggiata lì, fra quegli alberi». Non c'era. Maledizione, glielo avevano detto che da quelle parti non era sicuro, giravano sempre certi tossici che rubacchiavano qui e là.
Magari l'autoradio, ma lui non l'aveva messa. Magari questa volta proprio l' auto intera. Non c'era, corsa in commissariato a fare denuncia, spesso si ritrova. La targa la conosceva a memoria, sarà facile ritrovarla. «Appuntato, io ne ho bisogno. Senza lei come lavoro?».
AGGUATO DI VIA FANI - UNO DEGLI AGENTI DI SCORTA DI ALDO MORO
Erano passati quasi due mesi, e della macchina rossa fiammante non c'era più notizia. Fino a quel pomeriggio del 9 maggio, quando la moglie corse trafelata nella aziendina: «Filippo, vieni a vedere la tv, corri!».
Edizione speciale del Tg, collegamento con via Caetani a Roma: Aldo Moro assassinato, il suo corpo lì riverso con la barba lunga in una Renault 4». Filippo sbianca: «ma è la mia macchina, la mia Renault rossa Che ne hanno fatto». Non c' è molto tempo per chiederselo, perché suonano alla porta: «Bartoli Filippo?...». Sì, ecco la polizia. «Ci segua in commissariato».
Ore sotto interrogatorio, a ripetere che non ne sapeva nulla. No, lui non c'entrava con tutto quel che era accaduto. Gliela avevano rubata, aveva fatto denuncia il giorno stesso. Cercassero fra le carte. Ma niente, quelli sembravano proprio duri di comprendonio. Altro interrogatorio, il giorno dopo. E un altro, un altro ancora. Niente, non si convincevano. Un incubo. Ma alla fine passa, e Bartoli non è più indiziato, ma piccola vittima anche lui delle Br.
IL CAMPANELLO
Inizia un' altra paura: «Sapranno i brigatisti che sono io il proprietario? Ce l'avranno con me? Penseranno che la polizia mi abbia chiesto chissà che cosa? Non saremo in pericolo anche noi?». Il tempo, ci vuole tempo. Ma il tempo sana tutto, lava ricordi, paure e ferite. Filippo ricomincia a lavorare, Annarita cresce, l'incubo è alle spalle. Passa un anno. Ne passano due, e pochi mesi dopo ecco di nuovo il campanello. «Bartoli Filippo?». Sì, che succede ancora?
«Siamo quelli del carro attrezzi. Abbiamo qui la sua auto, gliela dobbiamo consegnare». La mia auto? La Renault rossa di quel 9 maggio? Sì, eccola lì lasciata in strada: «Firmi qui che gliela abbiamo riconsegnata. Arrivederci e grazie». Non era la stessa: baule sporco, ma era normale. Ma lo sportello era sventrato. Il cofano segato in due: li avevano aperti come scatolette gli artificieri, che temevano ci fosse nascosta una bomba. Nessuno gliela aveva rimessa a posto. E naturalmente così non era in grado di camminare.
«Papà che te ne fai? Buttiamola via». No, Filippo su questo non ci voleva sentire: «Era la tomba di un uomo famoso. Per rispetto nessuno la tocchi». Ma era impossibile. Qualche settimana dopo la notizia era arrivata chissà come a due cronisti di un quotidiano marchigiano. Eccoli lì: «Possiamo intervistarla, ce la fa vedere?».
E Filippo no, no e no. Così l'ha coperta con un telo: non la vedranno, i curiosi gireranno alla larga. Con il muletto dell'azienda insieme al genero la spostava di qua e di là. Ma una notte si sentì un gran trambusto: ecco lì i cronisti arrivati di soppiatto, avevano tolto il telo e scattavano foto con il flash. Maledizione, corri, corri, urla e quelli scappano. Ma ormai avevano la loro mercanzia da usare.
L'ULTIMA VOLONTÀ
È stato un pellegrinaggio ogni anno, a marzo o maggio spuntava qualcuno in cerca della Renault 4. Offrivano anche bei soldi. Un settimanale propose 60 milioni di lire dell'epoca. E lui disse no. Si fece sotto la stessa Renault: «La vende a noi?». No, no e poi no. E un ricco e famoso signore: «La vorrei per collezione. Le firmo un assegno di 100 milioni». Mandati tutti a stendere.
«Per lui quella macchina era intoccabile», raccontano ancora oggi i familiari, «una ossessione perché era stata la sua prima. Ma inseparabile da quel che era accaduto, continuava a ripetere che non avremmo fatto violare a nessuno la tomba di Moro». Fino al 2012. La malattia aveva fatto già sentire i suoi morsi, e ancora arrivava qualcuno a chiedere, a offrire.
Fu il giovane nipote a buttarla lì: «Nonno, ma perché non la doniamo alla polizia? Loro la sapranno conservare meglio di noi». Filippo si convinse, e la polizia grata promise che l'avrebbe rimessa a posto e inserita in un museo dove avrebbe fatto storia insieme ai reperti di quegli anni di piombo. Così fu. E lì, riverniciata e aggiustata, sta con il suo bagagliaio aperto. Come quel 9 maggio.