Francesco La Licata per \"La Stampa\"
MARIO MORIC\'è una sorta di maledizione che perseguita molti dei protagonisti delle diverse stagioni dell\'antimafia. Ed è una maledizione palermitana: una specie di nemesi incontrollabile che colpisce gli uomini più in vista, i più esposti nella lunga guerra che lo Stato (non sempre in modo ineccepibile) combatte da anni contro la mafia. Il cinico, sbrigativo e un po\' macabro humor palermitano sentenzia che la lotta alla mafia può essere occasione per grandi carriere o per funerali fastosi.
E Palermo - si dice - è il posto dove può capitare di doversi giustificare di essere vivi. Già, perché in una galleria di morti ammazzati, di eroi, il combattente ancora in vita può destare qualche sospetto. E\' accaduto in passato, ovviamente non in modo esplicito, che il chiacchiericcio salottiero si sia attardato a dibattere sui motivi che hanno provocato l\'eliminazione di qualcuno e «graziato», invece, qualcun altro.
Toto RiinaMa spesso anche i sopravvissuti pagano il loro prezzo. Per colpe ignominiose come può essere l\'alto tradimento, oppure per essersi mossi fuori dagli schemi, fuori dalle regole? Questo è il rebus che poche vicende giudiziarie sono riuscite a chiarire. Questo è il mistero che avvolge la storia del prefetto Mario Mori (ex generale dei carabinieri) un tempo eletto sugli altari, assieme al mitico capitan Ultimo, per aver catturato Totò Riina il Padrino di Cosa nostra, e poi precipitato nella polvere, accusato di non aver perquisito la casa del boss corleonese in ottemperanza ad una «combine» mafiosa.
Strage via d\'AmelioSembrava uscito in qualche modo dal tunnel quando il Tribunale di Palermo lo aveva assolto (insieme con Ultimo), seppure motivando la sentenza col ricorso ad una «ragion di Stato» poco comprensibile per i cittadini che dai processi si aspettano verità e giustizia.
E\' durata niente la svolta assolutoria, perché immediatamente è arrivata la seconda botta: l\'accusa di favoreggiamento nei confronti della mafia e in particolare di Bernardo Provenzano, secondo i pubblici ministeri palermitani latitante «autorizzato» da una sorta di lasciapassare concessogli in virtù di quella «trattativa» messa in piedi dai carabinieri del Ros, subito dopo la strage di Capaci del 1992, il «botto» che aprì la stagione terroristica della mafia segnata da via D\'Amelio - 57 giorni dopo - e poi dagli attentati sanguinari di Roma, Milano e Firenze del 1993.
Strage CapaciLa trattativa raccontata da Massimo Ciancimino: i «pizzini» di Provenzano al padre don Vito, il «papello» con le richieste della mafia allo Stato in cambio di una tregua alle bombe. Insomma tutto quello che ha trasformato il secondo processo a Mori in un racconto dell\'orrore che probabilmente culminerà nell\'accusa di concorso esterno e non già di favoreggiamento.
Tutt\'altro che sconfitto o rassegnato lui, il generale, continua a difendersi nelle aule di giustizia, seppure rimanendo nei limiti imposti dalla sua appartenenza all\'Arma e soprattutto alla logica del carabiniere. Una difesa che più d\'una volta ha fatto trasparire nell\'imputato eccellente un atteggiamento autoassolutorio quasi senza l\'obbligo di spiegazioni.
Don Vito e Massimo CianciminoE\' l\'adesione ad un metodo investigativo, il cosiddetto «metodo Ros» che chiede fiducia incondizionata, anche in presenza di vicende poco comprensibili, se non addirittura torbide. Un metodo che affonda le radici nei tempi: già con la morte del bandito Salvatore Giuliano all\'Italia attonita fu offerta la trama di un affaire che coinvolgeva interessi di politica internazionale.
Erano corrotti quegli investigatori? Era corrotto anche il medico legale che certificò il falso? Forse erano tutti costretti da una «ragion di Stato», allora indirizzata verso l\'argine anticomunista, essenziale per il rapporto col governo americano e col Vaticano. Il metodo ha resistito, nel tempo. Ma non ha perso la propria identità di servizio alla politica, dentro cui convivono doveri istituzionali ma anche interessi di carriera. Ai magistrati spetta il compito di stabilire se in questo «gioco fisiologico» si infrange la legge.
Massimo Ciancimino DSCIl prefetto Mori non ha mai fatto mistero di propendere per un metodo, diciamo, il più sburocratizzato possibile. E per questo si è sempre circondato di ufficiali che si riconoscono nella filosofia che Dalla Chiesa applicò sia alla mafia che al terrorismo: gli infiltrati, la corda lunga ai confidenti, qualche baratto. In un colloquio dello scorso dicembre con Claudio Cerasa del Foglio, è apparsa chiara la predilezione del generale più per l\'intelligence che per le operazioni giudiziarie: «Il poliziotto spera di catturare Osama Bin Laden, mentre l\'uomo di intelligence spera di acquisirlo come fonte». Eccolo, il metodo Ros.
Bernardo provenzano arrestatoLA CRONOLOGIA
1992 - E\' l\'anno delle stragi di Capaci e via D\'amelio. Proprio in quel periodo si svilupperebbe la trattativa Stato-mafia, con Ciancimino e Mori protagonisti.
1993 - Totò Riina viene arrestato il 15 gennaio. Il suo covo è perquisito soltanto il 2 febbraio. Un ritardo contestato al Ros dalla Procura.
dallachiesa carloalberto 012001 - Il colonnelo Riccio, ad un processo, denuncia: «Avvisai il generale Mori che si poteva prendere Bernardo Provenzano. Ma lui non volle intervenire».
2007 - Per la mancata cattura di Provenzano la Procura chiede per due volte l\'archiviazione. Il Gip non ci sta, così alla fine i pm chiederanno per Mori il processo.
2008 - Inizia il secondo processo Mori, imputato di favoreggiamento con il colonnello Obinu. Massimo Ciancimino incomincia a parlare della trattativa fra Stato e mafia.