VIGNETTA BENNY DA LIBERO RENZI E CARLO DEBENEDETTIIlvo Diamanti per “la Repubblica”
IL referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà (probabilmente) nel prossimo autunno, ha cambiato e sta, progressivamente, cambiando di significato. Di contenuto. In origine, mirava a dare legittimazione sociale alla riforma costituzionale che si propone di superare il bicameralismo paritario. Un sistema istituzionale che ha, da sempre, complicato il processo decisionale del Parlamento. Limitando l' efficacia della nostra democrazia rappresentativa.
La riforma ha goduto, all' inizio, di un largo consenso popolare. Così Matteo Renzi l' ha utilizzata per altri fini, oltre a quello originale e originario. In primo luogo: per caratterizzare l' azione del suo governo.
Un governo "riformatore". In secondo luogo, per rafforzarne il sostegno, attirando settori di elettorato estranei e lontani. Non solo al PD, ma alla politica. Il ridimensionamento dei poteri del Senato e del numero di senatori, infatti, piace a molti italiani. Non solo per ragioni di "rendimento istituzionale". Ma, ancor più, per ragioni "antipolitiche". Perché tagliare una Camera e un buon numero di senatori, risparmiare sui "costi" dei "politici": intercetta la diffidenza diffusa verso il "Palazzo".
Annunciando l' intenzione di dimettersi, nel caso la riforma non venisse approvata, Renzi ha ulteriormente ri-definito il significato della consultazione. L' ha trasformata in un referendum (secondo Gianfranco Pasquino: un plebiscito) sul proprio governo e su se stesso.
In questo modo il premier ha inteso non solo esercitare pressione sugli elettori. Ma "rimediare" al deficit di legittimazione che lo angustia. In quanto governa con una maggioranza variabile, in un Parlamento nel quale non è stato eletto. In questo modo, però, come ho già scritto, Renzi ha politicizzato un referendum antipolitico. E ne ha eroso, in parte contraddetto, le ragioni che gli garantivano consenso.
Si spiega così l' involuzione degli orientamenti nei confronti del referendum rilevata da Demos, nel corso degli ultimi mesi.
Lo scorso febbraio, infatti, si esprimeva a favore della riforma una maggioranza molto ampia: 50%. Mentre i contrari erano la metà, 24%. Poco meno di quanti non rispondevano, perché indecisi, oppure perché la materia risultava loro poco comprensibile. Oggi, però, la prospettiva appare molto più incerta.
Il sostegno alla riforma, infatti, è sceso al 37%: 13 punti meno di 4 mesi fa. Mentre l' opposizione è, parallelamente, salita al 30%. Insieme, è cresciuta anche la componente di quanti non si esprimono: 33%. La distanza, a favore del Sì, dunque, è calata sensibilmente: da 26 a 7 punti. Ma tra coloro che si dicono certi di votare si è ridotta a 3 soli punti. Praticamente: nulla.
Le ragioni di questo cambiamento non si possono spiegare attraverso la "conversione" degli elettori favorita dalla comprensione dei temi posti dal referendum. La crescita dell' incertezza segnala, piuttosto, il peso assunto dall' incomprensione. Assai maggiori appaiono, invece, a mio avviso, le ragioni "politiche".
Sottolineate, anzitutto, dalla distribuzione delle opinioni in base alla scelta di voto. Che riflette, in larga misura, i rapporti fra maggioranza e opposizione. In Parlamento e fra gli elettori. Il massimo livello di consenso alla riforma costituzionale si osserva, infatti, fra gli elettori del PD e dei partiti di Centro.
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In entrambi i casi, oltre il 60%. Più limitato risulta, invece, il sostegno alla riforma fra gli elettori di FI (42%). Comunque, superiore, seppur di poco, alla quota dei No (35%). All' inizio del percorso parlamentare, d' altronde, Berlusconi aveva dato il proprio appoggio alla riforma.
Ritirato, successivamente, dopo il mancato coinvolgimento del partito nella scelta del nuovo presidente della Repubblica L' opposizione più decisa e irriducibile viene, invece, dal M5s, dalla Lega e dalla Sinistra. Nella cui base il peso dei No al referendum supera largamente quello dei favorevoli.
La riduzione del consenso alla riforma, dunque, riflette, la riduzione del consenso ai partiti della maggioranza. Ma evoca, al tempo stesso, la "radicalizzazione" delle posizioni verso il premier. Che, oggi, divide anche il PD. Infatti, la quota di favorevoli alla riforma proposta alla consultazione referendaria oggi supera il 50%, fra chi esprime fiducia nel premier. Il doppio di quel che emerge fra chi lo guarda con diffidenza.
La politicizzazione del dibattito referendario ha, dunque, modificato l' atteggiamento degli elettori. Ben al di là delle critiche di merito, che hanno indotto, fino a poco tempo addietro, alcuni autorevoli opinionisti e intellettuali a dichiarare il loro sostegno al referendum, pur aggiungendo che "la riforma fa schifo". Oppure, al contrario, a schierarsi per il No, perché è una "finta riforma". Che non neutralizza il Senato, ma lo rende un corpo informe e opaco.
Così, l' opposizione a Renzi e al referendum si incrociano e si rafforzano reciprocamente.
Tanto più dopo le elezioni amministrative.
Che hanno avuto un esito non molto positivo per il premier e per il governo. Circa 8 elettori su 10 (Atlante Politico di Demos, giugno 2016) pensano, infatti, che il PD di Renzi esca indebolito dal voto delle città.
Lo stesso Renzi, d' altra parte, ha contribuito a confondere la scena, perché, in vista delle elezioni, ha spostato l' attenzione sul referendum. Rendendo, così, difficile ai candidati del PD e del Centrosinistra fare campagna sui temi locali. Così, ora, l' esito deludente del voto amministrativo condiziona le aspettative nei confronti del referendum. Il cui contenuto, presso gli elettori, appare complementare, se non subalterno, rispetto alla vera posta in palio. Il giudizio politico sul premier e sul governo.
Dopo aver puntato in modo intransigente sul referendum per auto-legittimarsi, oggi il premier cerca, dunque, di "sopravvivere" al referendum stesso. Il cui esito appare sempre più incerto. E problematico. Così Renzi, da un lato, pensa ad allontanare la data del voto.
Dall' altro, contrariamente al passato, appare disponibile a "spacchettare" i quesiti del referendum, per isolare i temi più critici.
Ma, in questo caso, Renzi, premier e segretario del PDR, che ambisce al ruolo di Riformatore di una nuova Repubblica, rischia di "spacchettare se stesso".