30 ANNI DI ‘’AMERICAN PSYCHO’’ GIUSEPPE CULICCHIA: ‘’LA CRITICA PIÙ FEROCE MAI SCRITTA SULLA SOCIETÀ AMERICANA DEGLI ANNI OTTANTA, CON LO SQUADRISMO MEDIATICO DEGLI ODIERNI EREDI DELL'INQUISIZIONE, OGGI FINIREBBE NEL CESTINO DEGLI EDITORI - IDENTIFICARE L'AUTORE DEL LIBRO COL SUO PROTAGONISTA, CONCLUDENDO CHE ANCH'EGLI DOVEVA ESSERE RAZZISTA, MISOGINO E OMOFOBO, EQUIVALE A TOGLIERE IL MALE DAI ROMANZI DI DOSTOEVSKIJ’’

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GIUSEPPE CULICCHIA GIUSEPPE CULICCHIA

Giuseppe Culicchia per "la Stampa"

 

Quando trent' anni fa American Psycho uscì prima negli Usa e poi in Europa, i social non esistevano ancora e la «cancel culture» era al di là della nostra più fervida immaginazione, malgrado il politicamente corretto fosse già nato da circa un quarto di secolo nei campus delle università americane come raccontato da Robert Hughes nel suo La cultura del piagnisteo. 

 

Il protagonista del romanzo, scritto da un Bret Easton Ellis appena ventiseienne, era Patrick Bateman, broker di Wall Street con la passione per gli abiti e gli accessori firmati, il sesso estremo e la pornografia, la cocaina e Phil Collins, ma anche e soprattutto per l'allora tycoon del settore immobiliare Donald Trump - letteralmente il suo idolo: nel testo viene citato una cinquantina di volte - e per i serial killer, a cominciare dal famigerato Ted Bundy. 

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Scritto in prima persona come una sorta di folle diario allucinato, nel quale Bateman almeno in apparenza veste a sua volta i panni del serial killer, torturando e uccidendo in modo orribile barboni, omosessuali ma più che altro donne, si tratti di ex fidanzate, modelle o prostitute, il romanzo venne rifiutato da Simon & Schuster, l'editore con cui Ellis aveva firmato un contratto, suscitando polemiche addirittura prima di essere pubblicato. 

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Chi lo aveva letto in anteprima aveva fatto trapelare di esserne stato disgustato, vista l'ultraviolenza e gli episodi di necrofilia e cannibalismo; e quando infine arrivò nelle librerie per i tipi di Vintage, Ellis venne attaccato pesantemente da coloro che lo accusavano di esaltare attraverso il suo protagonista razzismo, misoginia e omofobia. 

 

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Il libro venne stroncato da testate come Time («ributtante»), Vanity Fair («mostruoso»), New York Times («repellente») e boicottato, al punto che certe librerie si rifiutarono di metterlo in vendita. Il clamore contribuì ad aumentare le vendite e a fare di Ellis un'icona. 

Ma non solo, perché lo scrittore già acclamato all'epoca del suo esordio con Meno di zero (1985) ricevette ripetute minacce di morte, e un ostracismo feroce da parte delle femministe. 

 

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Non si trattava certo di una fatwa come quella scagliata contro Salman Rushdie per il suo I versi satanici, ma di qualcosa di più ridicolo e inquietante, visto che tali reazioni provenivano da persone e ambienti che palesemente non avevano saputo leggere il libro per quello che era pur avendo in teoria tutti gli strumenti per farlo. 

 

Perché Ellis in realtà aveva scritto un potentissimo j' accuse contro la superficialità e il narcisismo patologico di un'America ipnotizzata dal consumismo e dal turbo-capitalismo incarnati da un fan di colui che un giorno sarebbe stato eletto Presidente; e identificare l'autore del libro col suo protagonista, concludendo che anch' egli doveva essere razzista, misogino e omofobo, era quanto di più naïf si potesse fare, nonostante i due frequentassero gli stessi ristoranti e locali notturni e sì, condividessero alcune delle passioni elencate sopra. 

 

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Ma non ci fu niente da fare. Per molti, American Psycho era un libro sbagliato, da condannare senza se e senza ma alla pari di chi lo aveva concepito. La figura grottesca di Bateman e la sua involontaria comicità non suscitarono altro che sdegno in chi non capì di essersi imbattuto nella critica più feroce mai scritta sulla società americana degli anni Ottanta. 

 

Per fortuna, un gran numero di lettori non si fece sviare dalle condanne preventive, e ben presto American Psycho diventò quello che resta nel 2021: un classico contemporaneo, imprescindibile per comprendere quel decennio e quella New York. 

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Tuttavia, è proprio pensando al qui e ora che a trent' anni di distanza viene da interrogarsi su quale sarebbe l'accoglienza di un romanzo simile oggi, nel momento in cui in molte case editrici sono comparsi i sensivity reader, chiamati a leggere i testi presentati dagli autori dal punto di vista delle minoranze e con il compito di verificarne l'inclusività. 

 

È evidente che un romanzo come American Psycho riceverebbe ben più di un rifiuto, considerato il timore di finire sulla graticola di quel nuovo e inappellabile tribunale del popolo costituito dai social, a cominciare da Twitter: nessun editore vorrebbe mai diventare bersaglio di una «shitstorm», termine quanto mai illuminante usato per definire lo squadrismo mediatico degli odierni eredi dell'Inquisizione. 

 

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Ma ciò che più inquieta, al di là dei ragionamenti di marketing, è l'allargarsi della platea formata da chi in nome della difesa dei diritti non è in grado di cogliere la complessità e le sfumature, e quell'ambiguità che è essenziale in letteratura. Pretendere di leggere solo storie edificanti equivale a togliere il Male dai romanzi di Dostoevskij. E in ultima analisi altro non è che la nuova, imprevista declinazione di un fenomeno chiamato analfabetismo di ritorno.

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