L'UOMO CHE HA CENTRATO L'OBIETTIVO - A MILANO LA MOSTRA PER CELEBRARE I SESSANT'ANNI DI CARRIERA DI RICHARD AVEDON, IL GENIO CHE HA CAMBIATO LA FOTOGRAFIA DELLA MODA, METTENDO AL CENTRO LE MODELLE COME PERFORMER E NON COME SEMPLICI "MANICHINI" - LA MOSTRA, INTITOLATA 'RELATIONSHIP', SI CONCENTRA SUL RAPPORTO TRA IL FOTOGRAFO E LE MODELLE, GLI OGGETTI DI SCENA E L'USO DELLO SPAZIO NELLA FOTOGRAFIA...

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Alessandro Beltrami per “Avvenire”

 

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L'anno prossimo saranno i cento anni dalla nascita di Richard Avedon, tra i principali protagonisti dell'arte che forse ha segnato più a fondo il Novecento - grazie alla trasversalità, la capacità di penetrazione, la durata - ossia la fotografia. Milano ha deciso di festeggiarlo con leggero anticipo, presentando a Palazzo Reale, in concomitanza con la Fashion Week, una mostra che raccoglie gli oltre sessant' anni di carriera attraverso 106 immagini, di moda e ritratti, provenienti dalla collezione del Center for Creative Photography di Tucson e dalla Richard Avedon Foundation (catalogo Skira).

 

Con la moda si apre e si chiude la mostra. Nei primi scatti tra fine anni 40 e primi 50 si nota l'eredità decò, allora in voga, come se il nuovo inizio cercasse di configurarsi nella forma di un tranquillizzante illusorio tentativo di riprendere dal punto in cui si era rimasti. Sono foto segnate da una eleganza lineare e da magniloquenza dei gesti, come la celeberrima Dovima con gli elefanti in abito da sera Dior del 1955.

 

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Allo stesso tempo Avedon inietta un dinamismo innovativo per la fotografia di moda dell'epoca, che desume dalla fotografia sportiva, ma che appare pure nutrito di un immaginario estetico da Belle Époque, con abiti che turbinano alla Boldini. È in ogni caso evidente come da subito e progressivamente Avedon costruisca una grammatica dell'immagine di moda valida per decenni, andando a costituirsi come autentico classico, a partire dalla valorizzazione della modella come performer.

 

Questa energia propria della fotografia di moda (a fronte invece della staticità dei ritratti) dura lungo tutta la carriera, così come sembrano aleggiare reminiscenze della storia dell'arte, quasi come una sorta di Pathosformel: ed ecco la figura della ninfa che entra in scena con gli abiti gonfi d'aria, che si trasforma poi in un corpo avvolto dal tessuto come forme uniche della continuità dello spazio.

 

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La mostra si intitola "Relationship" ed è effettivamente ed efficacemente raccontata attraverso le relazioni che Avedon costruisce con le modelle o con i soggetti ritratti, in un rapporto unico di fiducia. Ma le relazioni sono un filtro utile a leggere in senso ampio il suo lavoro. Una dimensione di relazione è evidenziata nella tecnica del close up che caratterizza molte immagini e che implica un a tu per tu con lo spettatore. Avedon sviluppa la sua peculiare tecnica di ritratto cancellando lo sfondo, ridotto a uno spazio neutro, prima grigio e poi definitivamente bianco.

 

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Il volto o la figura in piano americano riempiono quasi completamente lo spazio, ripresi con una profondità di campo di pochi centimetri che porta in evidenza l'espressione facendo scivolare il resto nell'indistinto. Le fotografie sono di grande formato, ma la richiesta implicita è di una visione ravvicinata, secondo la proporzione tra lo sguardo del lettore e la carta patinata a cui queste immagini sono destinate in origine. Così ingigantiti i personaggi, nell'alta definizione della pellicola di grande formato che consente una ricchezza di dettagli intimi e drammatici, appaiono veramente larger than life .

 

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C'è poi una dimensione relazionale fondamentale nella organizzazione delle foto in ambiente, dove Avedon costruisce storie condensate in uno scatto singolo. Le foto di moda restituiscono un gioco delle parti, la commedia dell'arte del jet set. Ma anche ogni ritratto di Avedon è fiction, è sufficiente confrontare le due bellissime opposte immagini di Marilyn Monroe del 1957. La straordinaria densità di ogni scatto fa di Avedon uno dei grandi narratori americani, iscritto in quel genere ben radicato nella letteratura d'Oltreoceano che è il racconto breve.

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Vale la pena in conclusione di provare a ragionare sull'uso da parte di Avedon di includere in stampa i bordi neri del negativo. Certo è un firma, un sigillo. Ma è una strategia compositiva che da una parte contiene il campo neutro e lo trasforma in uno spazio di profondità, dall'altro - con una pratica zen - conferisce limite e quindi corpo al vuoto. Non solo, in questo modo Avedon dichiara la natura fotografica dell'immagine, il suo essere oggetto, e con essa la natura narrativa, finzionale.

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 Ma in ultima istanza è un modo per indicare all'osservatore che quello è il suo sguardo, la scelta di Avedon stesso, il taglio operato sulla realtà direttamente in sede di scatto. L'immagine è intatta alla sua sorgente, nulla è stato tolto, rimosso, obliterato a posteriori. È una dichiarazione di autorialità.

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