Stefano Ciavatta per Dagospia
Metti una sera d’inverno mesi fa a Roma. Un piccolo teatro nelle fondamenta di un palazzo rinascimentale. Un incontro per poche decine di persone, curato dalla piattaforma Dissipatio di Sebastiano Caputo. Evento totalmente off, senza neanche la locandina.
Metti Adamo Dionisi, un microfono aperto per un paio d’ore e il tema “borgate e libero arbitrio”.
Tutto era iniziato con “il passaggio traumatico dalla fiorita Garbatella dei lotti popolari alla Magliana dei palazzi, quartiere nato sotto il livello del Tevere, per questo definita la città di sotto”. All’epoca un incubo idrogeologico e sociale, di sicurezza e salute. “Nella vita devi indovinare la pancia in cui nasci, e poi devi vivere o sopravvivere. Il libero arbitrio non esiste”. Per lui “gli ultimi degli ultimi stavano alla Magliana”, e spingersi per 4 km fino alla turbolenta Trastevere anni 70 era visto come approdo al primo vero pezzo di città, ma non ancora la città di sopra.
Chi sedeva in pizzo sullo sgabello non era la figurina pasoliniana da riverire nei safari di periferia, né la mela eccentrica d’autore che ha paura di cadere dall’albero ZTL, non era nemmeno il regista che Roma non la conosce ma la intuisce, e ti vende la città come un planetario di stelle spente senza spiegarti dove stanno i buchi neri.
Neanche un reduce: “Fuggiva da quella parola - spiega l’autore e curatore Valerio Maria Trapasso che mi ha introdotto alla serata - era un modo aristocratico di non cedere a certe pruderie, di non farsi trattare da reduce di qualsiasi cosa, di borgata, dello stadio Olimpico, di Rebibbia, di Cinecittà, come un oggetto esotico nella vetrina wunderkammer”.
adamo dionisi manfredi anacleti in suburra 1
Piuttosto un veterano, ma risolto, una rarità su piazza: “Sto bene quando parlo del passato, sono nostalgico e meló. Sono felice di essere melò! So’ vivo e me n’nnamoro ogni giorno”. Che tipo di veterano? Una di quelle tessere del mosaico Roma capace di trascinare dentro il totale. Se ne sono accorti giorni fa i turisti, di solito costretti dal massacrante Grand Tour ad abboccare a una Roma presa tutta d’un fiato, quando davanti alla basilica di Santa Maria in Trastevere è apparsa con il funerale la vera travel experience: centinaia di facce romane che il rione non vedeva da decenni e tutte insieme, un mondo trasversale e profondo di legami e storie, che vibrava come una bussola impazzita perché colpito a morte anzitempo.
Ecco le teste della nouvelle vague del cinema mescolarsi con i compagni dei primi palchi, “l’ho conosciuto in carcere, facevamo teatro insieme”, con gli Irriducibili venuti a salutare il loro “Marchese”, con gli altri mondi capitolini che hanno riempito il largo cordoglio per la morte.
Per il provinciale sbarcato a Roma, che si nutre del gusto per l’élite, quella di Dionisi è una tranche de vie troppo ardita da esibire a cena, perché fin troppo romana: guarda sulla bara le sciarpe del mondo ultras laziale, sente l’inno da stadio trasformato in marcia funebre, lo giudica un sampietrino scivoloso, e si volta dall’altra parte, dimostrando di non saper maneggiare un tassello di peso della città anni 90, che poi è la decade d’oro che culmina con lo scudetto di Lazio e Roma. Liquida per manifesta irraggiungibilità un pezzo della città dell’altro ieri come fosse umanità di nicchia. O forse è un mondo con cui oggi non si può accreditare?
A lungotevere Ripa c’è una vecchia lapide che segna il punto estremo di una delle ultime piene del Tevere. Un apice che non tornerà mai più. È la stessa percezione raccolta in piazza di quel tassello di cui Dionisi era stato protagonista: il radicale, generazionale, cambio di rotta del tifo laziale organizzato, che uscì spavaldamente allo scoperto all’inglese, basta nascondersi dietro tamburi e bandieroni, solo voce e sciarpe; il salto frenetico, spregiudicato, violento nel nuovo mondo ultras (c’è bisogno di aggiungere l’aggettivo “controverso”?), con una potenza e libertà di azione oggi irripetibili; la nuova curva come uno dei magneti anni 90, galeoni pirati in cui entrava mezza città, compresa una serie di irregolari, che Dionisi chiamava “devianti”, scherzando sul frasario burocratese del carcere che lo aveva schedato così.
adamo dionisi manfredi anacleti in suburra
Illuminato dai faretti, col buio intorno, Dionisi aveva reso onore al valore salvifico del teatro. È noto: alla recitazione era arrivato tardi, tramite il teatro in carcere, come riscatto sociale in cerca di una luce, dopo pesanti condanne giudiziarie. Ci si era tirato dentro afferrandosi per i capelli come il Barone di Münchhausen. Al teatro e al cinema era riconoscente: lo dimostrano le tante iniziative sociali, i laboratori, le scuole, in carcere, nelle nuove periferie, nei campi Rom.
adamo dionisi elio germano suburra
Forse adesso il vestito di caratterista irregolare gli stava stretto ma Dionisi tagliava la testa al toro, “non mi ci metto proprio nella categoria degli attori”. Amava peró la recitazione, scrutava gli attori, impazziva per Servillo, “guarda come gliela serve bene quella scena, con la fatica giusta di uno che ha fatto quella vita”. La notorietà di Suburra, suo decimo film e poi la serie, l’aveva usata per dire “eccomi, ci sono anche io”. In quella cupa fabbrica di romanità come forma di immaginario criminale, era l’unico credibile, al mimetismo aggiungeva aderenza. Senza il villain Manfredi non sarebbero andati a sentirlo quella sera.
Inevitabile che fosse un grande osservatore. Sapeva riconoscere le falle nella recitazione del crime italiano, dal modo sbagliato di impugnare le pistole ai ladri “che dovrebbero camminare coi piedi a coltello”. Puntualizzava le imprecisioni delle narrazioni pop sui codici della strada che conosceva bene, ma non rivendicava un primato della street credibility. Diceva: “non te lo devo spiegare io, no?” e in quella frase c’era la rivendicazione della strada come qualcosa a disposizione di tutti, impossibile non accorgersene.
Entrava e usciva dai racconti della città di sotto, senza mai però usare parole come ghetto, fuga, riscatto. Casomai spinte, scoperte, avventure. Lanciava provocazioni, rompendo la retorica del marginale a tutti i costi, come il dovere dei ragazzi “di scoprire la città di sopra lasciando la comfort zone della periferia”. Planava sul dizionario dei gerghi, sulle coordinate metropolitane di crudeltà e violenza, poi virava altrove col discorso, accendeva remoti fuochi romani. Stavamo assistendo a una rapsodia.
Dionisi era in quel momento una presenza fisica della città, restituita con la voce, l’affabulazione fuori dal comune, il timbro affilato e ponderato insieme, potente e gentile, un flusso che riusciva a concentrare i registri del sentimento, con quei tempi stretti naturali che la recitazione aveva esaltato. Al pubblico della serata, pettinato, plurilaureato, under 40 della città di sopra, deve essere sembrato uno che “i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser” li aveva visti davvero.
“Sapeva giocare benissimo sulla seduzione stradarola, ma non ci si spiaggiava sopra, come i comici sul trono quando si sentono mattatori: il tempo di una battuta e Dionisi era già altrove” racconta Trapasso. Non poteva essere a lui che si rivolgeva il sarcasmo del geniale “A piedi scarzi” di Fanelli e Borghi. Paradossalmente non gli apparteneva quel romanesco audiovisivo sempre in perdita, costretto a essere esistenzialmente strascicato, scoppiato, esausto, esaurito.
L’eloquio di Dionisi era gentile, ma rapido e maschio, mai lungo sulle cose, pronto a sterzare o a prendere di petto la posa, la cartolina che poteva imbrigliare lui e i pezzi di città a cui apparteneva. Ci sono voci che provengono da un corpo a corpo con l’Urbe, e forse per questo diventano seminali, e resistono al tempo più delle fisionomie. Non è più questione di neorealismo - un dio scomodato a vanvera su Roma - ma di incarnare un impatto ordinario con le “cose romane”, la manutenzione, non la posa documentaristica.
È con la voce che ha provato a farsi leggibile autorialmente. Dopo la lingua di Manfredi impastata di dialetti spuri, strozzata, sparata in verticale, aveva lavorato in cerca di “un’altra evoluzione del dramma”, spalmandola un tono sotto, lontana dalle isterie. Cimentandosi con la tradizione romanesca: Petrolini, Ferri, Belli, Trilussa e Sergio Citti (Dionisi era quella Roma che preferisce “Ostia” ad “Accattone”). Stringendo sodalizi con altre voci importanti romane: Valerio Mastandrea, Ivano De Matteo, Claudio Noce, fino ad arrivare a Sollima e Garrone. Un lento apprendistato di autorevolezza che “purtroppo non ha fatto in tempo a invecchiare professionalmente con altri film e opere - è il rammarico di Trapasso a nome di tutti - per questo l’assenza diventa subito rimpianto: quello di non poterlo incontrare più, di non sentire più quella voce”.
“L’amore, Enea. Pe’ diventà vecchi ce vò solo l’amore. Ce l’hai una ragazza te? Gli vuoi bene? Veramente? Facce un figlio, no? Che aspetti. Facce un figlio baciala, falla sta bene, sempre. Non te devi mai giudicà di bacià chi ami, mai. Che la vita non dura tutta la vita, la vita dura finchè sei giovane, poi inizia un’altra cosa. E se non c’hai nessuno da bacià vicino, diventi matto. Per questo la gente si butta di sotto dalla finestra e non riesce manco a morì. Lo sai perchè? Perchè già so morti, Enea, dentro già sò morti tutti”.
Questo breve trattato di sapienza, nostalgico e melò, che Dionisi si carica sulle spalle in una scena del coraggioso, spregiudicato “Enea” (2023) di Pietro Castellitto, è diventato per cause di forza maggiore il punto di approdo massimo della poetica dell’attore, scomparso a soli 59 anni. C’era molta scrittura dietro la voce di Dionisi. Chissà se qualcuno metterá la sua voce nero su bianco con un libro, facendo ordine nello zibaldone di appunti, lettere, testi, messaggi, vocali, sparso tra etere e carta.
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Si va controcorrente nel restituire la collocazione nel mosaico di Roma di un tassello ridondante di connessioni come Dionisi, in un’epoca in cui per molti, spaventati, osservatori - malati di rappresentazione e non di consumazione della città - Roma non è più percepita nella sua totalità, cioè nel grado di sponde toccate e nel tempo affrontato e consumato.
Da nativo, davanti alla pressione di una città idealizzata da chiunque, un fondale spettacolare alimentato da milioni di speculazioni, mi sono sentito romano ogni volta che nessuno mi ha chiesto di dimostrarlo. Ma ho imparato quanto sia faticoso, alla distanza, emergere nella città ordinaria: più facile alzare nuovi obelischi che portare a maturazione percorsi, presenze, voci. E quindi, davvero troppo presto per Adamo Dionisi. Uno, romano, e centomila.
ADAMO DIONISI IN SUBURRA ADAMO DIONISI ADAMO DIONISI