Antonio Lodetti per “il Giornale”
La goliardia è il massimo che c'è! A qualunque età. Lo certifica Renzo Arbore, uomo dalle mille anime. Pioniere di un nuovo modo di fare televisione, grande entertainer, raffinato jazzman e cultore di jazz, collezionista dei più strampalati oggetti di plastica e bachelite e molto altro ancora.
Arbore se ne sta lontano dalla tv generalista ma è un vulcano di idee. La sua televisione sul web, RenzoArbore Channel Tv, trasmette musica e contenuti culturali. Ha appena pubblicato la divertentissima autobiografia E se la vita fosse una jam session, le sue collezioni di plastica sono esposte a Roma in un museo e - dulcis in fundo - è appena ripartito con la tournée dell'Orchestra Italiana.
Maestro ma non si ferma mai?
«La passione e la curiosità mi spingono sempre avanti. Quando ero piccolo mio padre, che aveva uno studio dentistico molto avviato, per invogliarmi a seguire la sua strada mi faceva assistere alle estrazioni dei denti. Ma io sognavo di fare musica e spettacolo».
Lei è stato il pioniere dei disc jockey italiani.
«Infatti sono ancora oggi Presidente dell'Associazione italiana disc jockey. Negli anni Sessanta l'unico dj famoso nel mondo era Lupo Solitario, un personaggio mitico. Gli altri erano dei fantini del disco, personaggi che trasmettevano solo dischi di successo.
Io avevo vinto un concorso alla Rai ed ero diventato Maestro programmatore di musica leggera, come Gianni Boncompagni, ma subito capii che volevo diventare uno di quelli che lanciano i dischi».
E come fece?
«Devo ringraziare il maestro Razzi, autore anche di tante canzoni di successo, che tornò dagli Stati Uniti e ci disse: ma lo sapete che là i maestri programmatori trasmettono loro stessi alla radio?, così io e Boncompagni fummo nominati immediatamente dj sul campo».
A voi non sembrò vero...
«Ci comportammo subito da scapestrati cercando di proporre al pubblico radiofonico, con programmi come Bandiera Gialla e Per voi giovani, le Cenerentole, ovvero le belle canzoni che non raggiungevano il successo perché nessuno le spingeva».
Fu un grande successo.
«Abbiamo fatto ascoltare e quindi lanciato tutti i big, da Fausto Leali a Lucio Battisti, da Patty Pravo a Mal passando per Claudio Baglioni e Pino Daniele. Sono stato il primo a trasmettere Vasco Rossi con il brano Faccio il militare».
Come facevate?
«Dovevamo arrivare prima delle case discografiche e lanciare soprattutto il rock and roll e il blues che qui conoscevano pochi appassionati. Facevamo di tutto. All'epoca ero l'unico italiano abbonato al servizio dischi di Billboard; i primi dieci dischi della classifica americana mi arrivavano direttamente a casa. Così potei trasmettere giganti come i Beatles, Ray Charles, James Brown, Otis Redding. Utilizzavamo anche altri metodi, come quello di farci comprare i dischi dai piloti degli aerei intercontinentali.
Per la musica dal vivo era la stessa cosa. Andavamo dagli impresari e chiedevamo loro di far venire gli artisti a Roma. Altrimenti ci arrangiavamo. Contattammo anche Dr. John a New Orleans, gli pagammo un biglietto aereo in classe turistica e lui arrivò con il suo meraviglioso piano blues. A volte fummo anche fortunati. Riuscimmo a portare in studio Joe Cocker un giorno in cui non era completamente ubriaco o fatto di droga, e lì incontrò per caso James Brown con cui improvvisò una jam session. Ho ancora la registrazione».
Non le manca la televisione?
«La tv che facevo io non si farà mai più perché oggi non la sanno fare. Era allegra, improvvisata, non teneva conto degli ascolti e dell'Auditel. Era jazz della parola fatto con incoscienza, e in più eravamo spiritosi.
E parlo di programmi come Speciale per voi, Quelli della notte, Doc, Il processo a Sanremo con Lino Banfi, l'ultimo Meno siamo meglio stiamo. Quel tipo di varietà non esiste più, magari avesse avuto degli eredi.
L'intrattenimento è in crisi. L'ultimo grande entertainer è stato Fiorello. Maurizio Crozza è eccezionale ma fa un genere diverso. Fabio Fazio fa qualcosa di interessante con Frassica. Alla radio invece ci sono parecchi personaggi che fanno rubriche spiritose».
Quindi ora per fare tv è andato sul web?
«Mi diverto a trasmettere in streaming. La rete è provvidenziale per trasmettere contenuti musicali e di intrattenimento. In rete sei contemporaneo, mi piacerebbe che i ragazzi la usassero per scoprire i grandi artisti del passato, le fondamenta del pop e del rap. Non puoi essere un buon muscista se non conosci Louis Armstrong o il primo Adriano Celentano».
Ha qualche progetto nel cassetto?
«La mia campagna senile sarà quella in difesa del belcanto italiano. Vorrei che le istituzioni mi dessero una mano a studiare, tradurre e mettere su Internet la canzone italiana d'autore del Novecento. Sarebbe anche un bel rilancio per la diffusione della lingua italiana, che è la quarta lingua più parlata nel mondo. La nostra canzone viaggia con un handicap perché le multinazionali non la esportano, tranne i casi di Laura Pausini o di Eros Ramazzotti, nei Paesi in lingua spagnola.
Lucio Dalla, che ha scritto pagine di cultura, all'estero non sanno neppure chi sia. Umberto Eco è uno dei pochi che ha riconosciuto questa forma di arte minore, a patto che sia arte minore perché i testi di De Gregori e De André sono vere e proprie poesie.
Non vedo perché ci si debba fermare a Leopardi o a Pascoli. La musica è fatta di piccole opere di cultura che meritano attenzione, anche quella di oggi di Capossela, Cristicchi oppure di Silvestri. Va bene la Donzelletta vien dalla campagna, ma anche Caruso ha un suo peso».
La sua biografia sta riscuotendo un ottimo successo.
«Ha successo perché racconta con ironia la storia, gli americani, il Duce, il beat, il '68 fino ai giorni nostri. Certo la vita non è stata tutta così pimpante come il libro racconta. Ho vissuto grandi dolori, grandi lutti, ma mi aiuta il pensiero positivo americano. L'importante è non fare marcire il cervello: io come ascoltatore e ricordatore sono ancora molto curioso e valido».
Cosa ricorda del Duce?
«Lo vidi da piccolissimo, nel 1942, a Riccione, mio padre mi sollevò sulle spalle per vedere questo personaggio tutto di bianco vestito il cui nome faceva rima con luce. Poi ricordo che mio padre, che era stato militare, celebrava il sabato fascista».
E del '68?
«Il jazz mi ha tenuto lontano dalle ideologie estremiste. Non ricordo un solo jazzista che sia stato comunista o che abbia esibito il pugno chiuso in concerto. Il jazz non può essere comunista perché è la musica della libertà. Il free jazz americano fu molto impegnato politicamente ma quella è un'altra storia. Dal canto mio bastava guardarsi in giro; quando andai a Berlino Est fu un'esperienza desolante».
Lei di che tendenza politica è?
«All'epoca leggevo Gobetti e avevo tendenze liberali, poi fui anche repubblicano, ma sostanzialmente mi sono sempre sentito svincolato dalle ideologie».
E la mostra dei suoi oggetti più strani e divertenti?
«Sono esposti al Macro a Roma, in zona Testaccio. Sono frutto di una vita di ricerche e di avventure. Sono solo oggetti in plastica degli anni Trenta e Quaranta, come il bracciale detto Vipera, appartenuto a mia madre, le borsette delle donne americane, monili di tutti i tipi, servizi di piattini o da toilette, cose di tutti i generi che oggi sono introvabili e preziosi perché a quei tempi la plastica era cancerogena.
Poi c'è la mia collezione di oggetti appartenuti alle star. Quando li invitavamo facevamo pagare loro pegno lasciando un souvenir, chessò, un cappello, degli occhialini, un plettro di chitarra. Sono pezzi che hanno un grande valore».
Non si può parlare di Arbore senza parlare dell'Orchestra italiana.
«È un progetto che avrebbe dovuto durare due o tre anni ed invece sono 26 anni che cresce. Io ho riportato lo swing in Italia prima ancora che arrivasse Michael Bublé, e la nostra canzone napoletana è un marchio doc della cultura italiana nel mondo.
Non avrei mai scommesso sul successo delle nostre canzoni in Cina o in Russia, dove abbiamo cantato al Cremlino, nella sala dove si teneva la riunione di tutti i partiti comunisti, davanti a seimila persone impazzite».
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