Silvia Fumarola per la Repubblica - Estratti
Maglioncino turchese, il cachecol in tinta, Peppino di Capri è seduto nel bar a due passi da casa, a Mergellina, dove lo chiamano “maestro” e il cameriere si avvicina cantando le sue canzoni. Beve la spremuta d’arancia, sorride a tutti. Con quindici festival di Sanremo alle spalle — due da vincitore — è un monumento. Coltiva l’ironia, l’anno scorso all’Ariston quando gli hanno consegnato il Premio Città di Sanremo alla carriera, ha ringraziato: «Ci tenevo tanto: meglio tardi che mai».
Il 27 luglio Giuseppe Faiella, questo è il nome all’anagrafe, compirà 85 anni. «Ancora, quando mi fermano, mi rimproverano di essersi innamorati per colpa mia. Ho fatto danni», dice ridacchiando. Da Nun è peccato a Roberta, Champagne, Saint Tropez twist, Luna caprese, Nessuno al mondo, ha scritto canzoni bellissime. Racconta con orgoglio del ragazzo di diciotto anni che lo ha aspettato per farsi firmare i dischi: «Mi emoziona il legame coi giovani, qualcosa è arrivato».
Oltre 60 anni di carriera, quindici festival di Sanremo: il più bello?
«L’ultimo come ospite, quando mi hanno dato il premio alla carriera. E poi quando ho cantato Il sognatore nell’87, era un abito su misura».
Due volte vincitore, quanto ha contato?
«Non è determinante vincere a Sanremo, secondo me. Tanti, anche non vincendo, poi hanno avuto fortuna. Però è un biglietto da visita non indifferente, soprattutto all’estero. Quando ti presentavano e dicevano: “E adesso, direttamente da Sanremo”, era qualcosa».
Segue il festival?
«Sempre. Specie la prima serata, la vedo con maggior impegno. Poi Amadeus mi piace molto, è gentile e ha saputo ricreare l’evento».
Il suo brano che ama di più?
«I miei capelli bianchi. “Stanotte non ho voglia di dormire/ Io faccio un po’ il bilancio di una vita/ Ho messo in fila tutti i miei ricordi/ In fondo non c’è molto da cambiare”. Ed è proprio così. L’età? Non ci pensi. Non te ne accorgi, poi un giorno gli anni che sono passati arrivano tutti insieme».
I primi ricordi?
«Il successo è arrivato presto, suonavamo con il mio gruppo a Ischia... Peppino di Capri a Ischia, lo so, fa un po’ ridere. C’era la solita invasione di turisti dal Nord. E nel 1965 ho suonato ai famosi concerti dei Beatles. Ci siamo fatti una foto insieme solo l’ultimo giorno».
Negli anni ha indossato giacche incredibili, come nascevano?
«Erano di seta cinese, me le facevo confezionare dalla sarta di Roberta, la mia prima moglie. A volte era scettica: “Da questo pezzo di stoffa si può fare al massimo un gilet”. A Maranello, il tempo di firmare un autografo, me ne rubarono una a cui tenevo. Rifaccio un appello: chi l’ha presa, può ridarmela?».
Da piccolo andava a suonare per gli americani e il generale Clark.
«Mi lasciavano i soldi su un vassoio d’argento, non avevo contezza. Era come un gioco. Avevamo un pianoforte e mio nonno lo bruciò per tingere i vestiti. Si usava così. Papà ne comprò un altro, era musicista».
Suo padre era severo?
«Più che severo. Con me e con le mie sorelle. I miei non mi avevano mai visto dal vivo. Ricordo il Metropolitan di Napoli, tremila posti, i ragazzi appesi, il più grande complimento è stato: “Eh”. Era un dovere fare bene le cose. La stessa cosa quando ho partecipato ai festival e facevo la classica telefonata a casa: “Avete visto?”. E dall’altra parte: “Eh”. Niente complimenti. Presentai un libro a Capri, si alza una signora, era stata la mia insegnante, e racconta che mio padre una volta alla settimana andava a scuola per chiedere come andavo. Non me lo aveva mai detto».
(…)
Tanti viaggi: un ricordo curioso?
«Ero in Persia per sette giorni di esibizioni, mi chiamano: c’è lo scià che sarebbe onorato di invitarti a fare un concerto. Era il compleanno della madre. Andiamo in questo palazzo pieno di specchi, con trecento invitati. Come ci mettiamo? Col mio gruppo ci prepariamo: si chiude il separé, c’erano Farah Diba, lo scià con i quattro figli. Abbiamo suonato per loro».
Emozionante?
«Con i miei musicisti non si parlava di soldi ma c’erano grandi aspettative. Il batterista diceva: “Vedrete, ci daranno un tappeto a testa”. Il giorno dopo arrivano in albergo cinque fotografie dello Scià con la cornice di finto legno. Mica sarà questo il regalo? Purtroppo sì, era quello. Avevo cantato anche per Soraya a Cortina, la sua canzone preferita era Nessuno al mondo. Poi, nel 2018 Bruno Vespa mi invita a Porta a porta, sorpresa: l’ospite era Farah Diba».
Il primo segno del successo?
«Arrivò da un giorno all’altro, passavo davanti a Via Veneto, c’era un negozio di dischi. Vado timido col cappuccio del montgomery in testa, per nascondermi: “Ha un disco di Peppino di Capri?”. La commessa mi fa: “Non facciamo in tempo a ordinarli”. Passano un paio di mesi e vedo in vetrina la mia foto. Entro. “Lei somiglia molto a Peppino di Capri”».
lI legame con Napoli?
«Quando vai via ti manca l’essenziale. È un palcoscenico naturale, puoi rubare le scene e portarle in giro per il mondo. Poi ci sono artisti meravigliosi. Uno vero è Nino D’Angelo. Per non parlare di Pino Daniele; lo conobbi da ragazzo, si presentò nel mio studio, con la chitarra e mi fa sentire le sue canzoni, Napule è, una meraviglia. “Bella, me la fai cantare?”. E lui: “La vorrei fare io”. Ne suona un’altra, poi un’altra ancora: le voleva cantare tutte. Lo guardo: “Hai un pezzo che non te ne fotte niente?”».
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