Marco Giusti per Dagospia
Fai bei sogni di Marco Bellocchio
Arriva stamane il primo film italiano dalla Quinzaine des Realisateurs, Fai bei sogni di Marco Bellocchio. Meglio qui, alla fine, che a Venezia, vista la coproduzione francese e la composizione del cast. Diciamo subito che nessuno sa filmare la borghesia italiana del ’900 come Marco Bellocchio. Le case, le persone, i dialoghi dei borghesi, le madri, i padri, i bambini.
E certo, dovendo individuare un regista che portasse sullo schermo, con un vero budget e una sua forza cinematografica, un romanzo di grande successo (un milione e mezzo di copie) come il Fai bei sogni di Massimo Gramellini, la scelta di Marco Bellocchio da parte del produttore Beppe Caschetto (lo stesso di "Che tempo che fa" di Fazio, ospite fisso Gramellini) ci sembra più che giusta. Anche perché invita Bellocchio, e i suoi co-sceneggiatori, Valia Santella e Edoardo Albinati, a ripercorrere non solo un bel po’ di storia italiana, che ora ci sembra appartenere proprio a un altro secolo, ma a entrare nelle case borghesi dei piemontesi negli anni ’60.
Diciamo subito che Bellocchio ha gioco più facile in tutta la prima parte con il protagonista bambino, soprattutto per quel che riguarda la sua reazione alla morte della madre, quando ha ancora nove anni. Crede alla versione che gli dà il padre, Guido Caprino, che sia morta cioè per un “ictus fulminante”, ma questo non gli impedisce di crescere con un vuoto che riempie con bugie e paure.
E la costruzione da parte di Bellocchio di due grandi scene, quella con la madre dell’amichetto, Emmanuelle Devos, formidabile, e il dialogo col vecchio prete, Roberto Herlitzka, che gli spiega l’idea della morte da un punto di vista cattolica sono di grande spessore.
Il gioco si fa più difficile quando il protagonista cresce, e Massimo diventa un Valerio Mastandrea serio e con un giusto distacco dal personaggio, e deve affrontare non solo le vicende storiche che la sua professione di giornalista gli impongono, ma un passato che non ha capito e voluto capire.
Che cioè la morte della madre, non è avvenuta per un ictus fulminante. Anche nella parte che vede il protagonista adulto, Bellocchio sceglie di costruire il racconto per grandi quadri, spesso quasi lontani dalla sua storia personale, anche se giocano pesantemente con la morte. Penso alla ricostruzione del suicidio di un potente alla Raul Gardini, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni con toni alla Vittorio Gassman, alla sua missione in Bosnia dove incontra il fotografo che compone belle immagini con la morte di una madre.
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Solo attraverso una forte figura femminile, la dottoressa Elisa, interpretata con grazia da Bérenice Béjo, Massimo riuscirà a superare le proprie paure, le crisi d’ansia e affrontare così il proprio passato con tutti i suoi fantasmi. Certo. Non deve essere stato semplicissimo né per Bellocchio né per Valerio Mastandrea trattare un personaggio pubblico, lo vediamo ogni fine settimana nel salotto di Fabio Fazio, come Massimo Gramellini.
Inoltre, è vero che ha venduto moltissime copie del suo romanzo autobiografico su un dolore vero, la morte della madre e il suo superamento, ma, oltre a non suscitare tante simpatie da parte di un pubblico più smaliziato e criticone, grazie forse a un certo moralismo un po’ facile che ha travolto la sua fresca ironia iniziale, non può vantare alla fine, storia privata a parte, una vita così avventurosa e interessante per il cinema.
Che il personaggio stesso di Gramellini sia un problema, lo notiamo nella messa in scena, realmente interessante proprio perché non ovvia, della lettera che il giornalista scrive in prima pagina sulla perdita della madre. Come se Bellocchio prendesse le distanze dalla sua scrittura giornalistica, anche se rimane legato alla costruzione del personaggio e alle sue ansie.
Non vuole, fortunatamente, fare un santino né del libro né del personaggio, rimane sempre un po’ distante, e una cosa analoga fa Mastandrea, lasciandosi una spiraglio critico che lo distanzia da quello che interpreta e sviluppando il racconto appunto sulla crisi del giornalista rispetto all’idea della morte che non vuole accettare. Il film, così, funziona soprattutto nella struttura a grandi episodi apparentemente quasi slegati fra loro, che lo compongono.
La fanciullezza a Torino, la perdita della madre, il rapporto col padre, quello con l’essere cattolico, la giovinezza, la professione. Ma funzionano di più gli episodi apparentemente più marginali, la morte del potente Gifuni o l’incredibile scena della Béjo che si tuffa in piscina, sotto gli occhi di Mastandrea che legge lì il suicidio della madre. Forse la mancanza di una storia forte, non è Vincere, certo, e la storia di Gramellini, di per sé, come quella di tanti giornalisti non è poi così interessante, hanno fatto spostare il film di Bellocchio dal concorso alla Quinzaine.
Ma, se si supera lo shock di Mastandrea che tifa per il Toro o di Gramellini che passa da fidanzate bellissime come Miriam Leone a Bérenice Béjo (è il cinema), rimane un ottimo film internazionale, prodotto e costruito con cura e attenzione, con attori di gran livello, da Mastandrea alla Béjo, da Herlitzka alla Devos, grande fotografia di Daniele Ciprì e bellissima musica di Carlo Crivelli.