CHE DIO CI LIBERI DAI CYBER-MORALISTI - IL LIBRO “I GIUSTIZIERI DELLA RETE” RACCONTA IL MICROMONDO DEI SAVONAROLA DEI SOCIAL CHE, PENSANDO DI ESSERE CROCIATI DEL BENE, FANNO A PEZZI LE VITE DEI “CATTIVI” (O PRESUNTI TALI)

L’autore del libro Jon Ronson: “Sui social tendiamo a definire le persone in base a un piccolo dettaglio e così decidiamo se qualcuno è eroe o impostore. Prenda Justine Sacco: sono stati quei 140 caratteri a definirla a 360 gradi. Invece è una brava donna che ha semplicemente fatto una battuta che non le è venuta bene...”

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Serena Danna per “la Lettura - Corriere della Sera”

 

jon ronson jon ronson

I killer da social network, quelli che ogni settimana scelgono una nuova vittima a cui distruggere la reputazione, non sono troll o persone che eviteremmo per strada. Sono accademici, giornalisti, padri di famiglia: tutti convinti di agire per il bene della società.

 

È la tesi di Jon Ronson — giornalista, sceneggiatore e autore cult britannico — che ha dedicato il suo nuovo libro, I giustizieri della rete, alle vittime della «rinascita della gogna pubblica»: personaggi pubblici e ignoti cittadini le cui vite sono andate distrutte a causa dell’accanimento via Twitter di milioni di utenti.

 

jon ronson jon ronson

Tra questi c’è Lindsey Stone, che nel novembre 2012, pubblica su Facebook una foto — rimbalzata poi sui media di tutto il mondo — che la ritrae con il dito medio alzato davanti a un cartello che invita «rispetto e silenzio» nel cimitero dei soldati di Arlington.

 

E c’è l’ex pr newyorkese Justine Sacco, che, prima di imbarcarsi su un volo diretto in Sudafrica, nel dicembre 2013, scrive un tweet considerato razzista. Durante le ore in aereo, quel messaggio viene letto e commentato online da milioni di persone, causando il suo licenziamento.

 

Ronson però non si concentra solo sulle «vittime». Nel libro sposta spesso lo sguardo sui «carnefici»: le «persone carine» convinte di offrire un servizio alla collettività attaccando il razzista, l’impostore, l’immorale di turno. È il caso del giornalista Michael Moynihan, conosciuto al pubblico italiano per aver accusato di plagio sul «Daily Beast» lo scrittore Roberto Saviano. Freelance sottopagato sempre alla ricerca di un’occasione di riscatto, Moynihan è convinto di essere — confessa la moglie a Ronson — il «guardiano delle regole sociali».

 

justine sacco justine sacco

Quando il 30 luglio 2012 invia al giornale ebraico «Tablet» l’articolo che annienterà la star del giornalismo scientifico Jonah Lehrer, lo fa perché è convinto di stare nel giusto: essere brillante, ricco e famoso non autorizza Lehrer a riscrivere frasi di Bob Dylan per rendere più godibile il suo libro.

 

Eppure in quelle settimane — mentre la carriera del giornalista va in pezzi — Moynihan dice a Ronson: «Non farlo mai, non premere Invia per una storia che potrebbe distruggere qualcuno».

 

justine sacco justine sacco

Anche Luke Robert Mason, rispettabile ricercatore dell’Università di Warwick, crede di fare un servizio alla scienza quando, nel 2012, crea un finto account Twitter di Ronson, e per settimane pubblica tweet stupidi e volgari spacciandosi per il giornalista. I giustizieri della rete parte da qui. «la Lettura» lo ha incontrato a New York. Si era infuriato tanto per quei tweet...

 

«Ho passato tutta la vita a conoscermi, poi arriva all’improvviso un altro Jon Ronson, che si comporta da deficiente. Quando ho parlato con Mason mi ha detto che non avevo il diritto di arrabbiarmi perché internet non è il mondo reale. Ci sono ancora persone che lo credono... Pensi allo scandalo Ashley Madison (i l sito per incontri tra persone sposate che è stato hackerato rivelando l’identità dei traditori, ndr). I responsabili dell’attacco si sono accorti che era il mondo vero quando ci sono stati i suicidi».

 

lindsey stone lindsey stone

Gli hacker pensavano di agire in nome della morale.

«Sempre lo pensano. È proprio il desiderio di essere brave persone che spinge gli individui a essere totalmente privi di compassione. La morale è l’origine di tanta violenza e internet ne è il regno».

 

Lei è convinto che su internet diventiamo facilmente persone peggiori.

luke robert mason luke robert mason

«Sui social tendiamo a definire le persone in base a un piccolo dettaglio e così decidiamo se qualcuno è eroe o impostore. Prenda Justine Sacco: sono stati quei 140 caratteri a definirla a 360 gradi. Invece è una brava donna che ha semplicemente fatto una battuta che non le è venuta bene... Dobbiamo pregare di non diventare mai rappresentativi di qualche ideologia. Justine ha finito con il rappresentare il privilegio bianco».

 

Sorprende come i media tradizionali inseguano e amplifichino queste campagne.

«Sono cresciuto in una cultura in cui i giornalisti agivano senza paura contro il potere. Devo constatare che quando il “potere” proviene dai social media i giornalisti diventano mucche. Credo succeda per due ragioni: si sentono molto insicuri nel mondo digitale e credono che seguire i social significhi omaggiare la democrazia. Ma i social sono l’opposto della democrazia: attaccare una persona, urlargli contro e continuare a urlare fino a quando non è tramortita, è l’opposto della democrazia».

jonah lehrer jonah lehrer

 

Queste campagne di odio sono redditizie per i siti che le ospitano.

«Nel caso di Justine Sacco, Google ha guadagnato tra 120 mila e 460 mila dollari in poche ore, e anche Twitter ha avuto entrate. Nessuno, dalle compagnie ai giornali, ha pensato anche solo per un attimo che forse Justine non meritava quel trattamento. Tutti facevano i soldi con i clic tranne noi, schiavi non pagati di Twitter».

 

Forse chiedere a Google o Twitter di agire per arginare questi fenomeni significherebbe riconoscere loro ancora più valore.

«Le cose cambiano solo se ci muoviamo a livello individuale. Più regolamentazione non è la risposta, anche perché le regole si rivolgono a troll misogini e violenti che usano un linguaggio osceno ma, in questi casi, i troll siamo noi. E siamo molto peggio perché sembriamo carini e rispettabili».

 

michael moynihan michael moynihan

Queste campagne durano poche ore, eppure le conseguenze sono indelebili.

«Un anno dopo i fatti, Lindsey Stone soffriva ancora di attacchi di panico. Non trovava lavoro perché il suo nome su Google restava associato al vilipendio. Ripulirsi la reputazione online è un affare da milionari. Le cose sono cambiate quando sono andato da lei offrendole empatia, perché l’unico antidoto alla vergogna è l’empatia».

 

Il processo in diretta a Jonah Lehrer fu organizzato dalla Knight Foundation, la più importante fondazione per il giornalismo. Lehrer fu invitato a tenere il suo discorso di scuse in diretta Twitter a una cena della Fondazione e a vedere le reazioni degli utenti mentre parlava. Fu un disastro.

«Quando sei sotto processo hai un avvocato e una giuria. Su internet siamo all’anno zero della giustizia: gli accusati sono lasciati da soli. Certo, c’è giustizia sociale online che funziona: il movimento #BlackLivesMatter sta avendo un impatto nel dibattito sul razzismo; una campagna sui social ha spinto Cameron a ospitare in Gran Bretagna 20 mila rifugiati. Il problema è quando un singolo e la sua vita privata diventano simbolo di qualcosa. Lì comincia il gioco più sanguinoso».

 

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