1. ‘QUESTIONE DI KARMA’ E QUESTIONI DI MEREGHETTI
Marco Giusti per Dagospia
Un bell’attacco di Paolo Mereghetti al cuore della commedia italiana della stagione, anzi “al pettine, Ramon”, come diceva Diego Abatantuono… Quindi giù con la polemica. Più che giusta, riconosciamolo. Anche se Mereghetti mette tutto assieme, un remake paro paro di un film francese come Mamma o papà di Riccardo Milani, una commedia social-horror demenziale come Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda, che adoro, uno scolastico con i telefonini come Beata ignoranza di Max Bruno, i cinepanettoni del 2016, e questo nuovissimo Questione di karma di Edoardo Falcone.
Che non è poi, né peggio né meglio di tanti altri della stagione. Anzi. Vanta pure un bel cast, con Fabio De Luigi in un ruolo di scemo sapiente alla Renato Pozzetto, Elio Germano che riprende il ruolo di traffichino romano come in Suburra, un assolutamente strepitoso e bentornato Eros Pagni, che riesce a farci ridere anche quando dice che è 18 anni che non scopa più con la moglie, Stefania Sandrelli (ma non dice scopa, certo…), un redivivo Philippe Leroy a 94 anni, il nuovo caratterista stracult Massimo De Lorenzo, che recita in pigiama quasi tutto il film e sembra provenire dal mondo di Max Bruno, il Corrado Solari cattivo dei poliziotteschi di Umberto Lenzi, e la Sandrelli ancora svampita, certo.
E vanta, a differenza di tanti remake e simil remake, una storia originale. Che, magari, non sarà il massimo, con Fabio De Luigi, ricco orfano di un padre miliardario e suicida, cresciuto con la madre, Sandrelli, un patrigno arcigno, Pagni, una sorella lesbica tres chic, Isabella Ragonese, che si illude che il padre si sia reincarnato nel romano traffichino pieno di debiti, Elio Germano, con moglie bella e incazzata, Daniela Virgilio, ma almeno che prova a costruire un raccontino.
Con tanti personaggi originali e senza i telefonini. Telefonini che, dopo Perfetti sconosciuti, dominano la scena di quasi tutte queste commedie italiane, soprattutto quelle giovanili, vedi il nuovissimo Classe Z, o quelle di coppia comica come Beata ignoranza.
Ora. Mereghetti, che a differenza di Falcone conosce bene Ozu (almeno credo), ha ragione dicendo che nel nostro cinema sono rimaste solo commedie e che non sono bellissime. Magari fa anche bene, ma un po’ fa ridere, con questo sfogo da critico bacchettone che seguita a bacchettare l’industria romana con una palla-una palla e mezzo-mezza palla a questi poveri film.
Non si rende conto, però, che il problema non sono le commedie in sé, ma proprio la nostra industria e il nostro pubblico. L’industria insiste sulle commedie perché promettono un qualche incasso nella moria generale del cinema. Un film non commedia, con una bella idea di sceneggiatura, come Indivisibili è andato male come incasso. Colpa, va detto, di un pubblico che non ti segue più e se gli dici di andare a vedere un film ti chiede il link. “Che ce l’hai un link?”.
elio germano fabio de luigi questione di karma
Inoltre, i film sui quali si puntava di più sulla resurrezione del nostro cinema, quelli più originali di Pif e di Sydney Sibilia, sono stati più o meno delle delusioni al botteghino. Se In guerra per amore, Smetto quando voglio 2, Indivisibili, fossero andati bene, ci metto anche Omicidio all’italiana, che era forse troppo dark e difficile per il pubblico, fossero andati bene o meglio di come sono andati, non ci accorgeremmo neanche delle commedie alla Max Bruno-Fausto Brizzi-Riccardo Milani-Edoardo Falcone.
Film che ci sono sempre stati nel nostro cinema, che avrebbero potuto girare Pasquale Festa Campanile o Castellano e Pipolo con Pozzetto e Montesano negli anni ’70. Personalmente preferivo allora le commedie di Cicero e Laurenti, più basse e vitali, Mereghetti non credo, ma quelle di Campanile e Castellano e Pipolo avevano il compito, fondamentale, di costruire l’ossatura della nostra industria media, fondata sulla commedia e sul cinema di genere.
Scomparso il cinema di genere, scomparso negli ultimi anni il cinema d’autore, e qui ci sarebbe da dire parecchio, scomparsa la commediaccia più bassa, emerge solo la commedia media, che rubacchia un po’ dall’alto e dal basso come ispirazione e cerca, nei suoi limiti, di rifarsi degli investimenti.
Mentre i soldi veri vanno tutti per le fiction e le serie tra Suburra, Gomorra, Young Pope, 1992 e 1993 e compagnia. Non mi stupisce tanto, insomma, l’invasione della commedia, quanto la scomparsa di tutto il resto. Al punto che emergono per i David di Donatello film d’autori sommersi che nemmeno abbiamo visto e non abbiamo più film da festival, come dimostrano Cannes e Berlino, che ci hanno snobbato di brutto, a parte il film di Guadagnino, che Mereghetti nemmeno ha citato, e perfino Venezia, dove Barbera si è inventato tre titoli che non dovevano essere mostrati in concorso.
Impoverendo tutto l’altro cinema, gonfiando le serie di Sky, Netflix e quanti altri, rimangono sulla scena solo i remake e le commedie medie e men che medie. Tutte le altre operazioni più curiose o sperimentali, vedi Maccio gli ex-Soliti idioti e i Pills di due anni fa, finiscono male. In tutto questo disastro, ha funzionato bene il film di Ficarra e Picone, e Mereghetti si guarda bene dal citarlo, perché non era solo una commedia, ma una storia sull’Italia di oggi, un film alla Zampa su cose che vediamo tutti i giorni.
E perché il film precedente di Ficarra e Picone, molto ben fatto, aveva creato un’attesa. Anche il precedente film di Falcone, Non c’è più religione, era andato bene e aveva creato un’attesa. Ma, rispetto al primo, perde la forza del cast, Giallini-Gassman finiti nel film di Max Bruno, anche se De Luigi-Germano promettono bene, e non c’è nessuna attinenza con la realtà che viviamo.
Detto questo è un film che si vede con piacere, grazie anche a un notevole cast che rispolvera talenti da tempo poco visti, penso a Pagni e Leroy. Però la battuta su Ozu, che obbliga un’attrice colta e preparata a dire che non sa chi sia, gliela potevate risparmiare. E poi mettere Ozu assieme a Kurosawa… In sala da giovedì.
2. «QUESTIONE DI KARMA» CONFERMA IL TREND DELLE COMMEDIE SENZ’ANIMA
Paolo Mereghetti per il ‘Corriere della Sera’
L’arrivo nelle sale della seconda regia di Edoardo Falcone, Questione di Karma, si potrebbe facilmente archiviare nella categoria «solite commediole italiane» dove i risultati non sono mai all’altezza delle ambizioni (almeno quelle dichiarate). Ma forse è più produttivo prendere spunto da quel film per cercare di riflettere in maniera più generale sui limiti — e le velleità — di tanto cinema italiano «d’intrattenimento» e sul perché quella che dovrebbe essere la colonna portante della nostra produzione finisca per rivelarsi sempre più inconsistente e fallimentare.
Sperando di non offendere Falcone se gli carico addosso «colpe» anche non sue (da cui comunque non è del tutto esente visto che la sua precedente attività di sceneggiatore l’aveva portato a lavorare con buona parte dei giovani — e meno giovani — registi della commedia millennial).
La prima cosa da dire è che spesso queste commedie prendono spunto da un’idea gustosa o comunque non scontata. Nel caso della prima regia di Falcone (Se Dio vuole) era la scoperta da parte di un padre «laico e progressista» che il coming out del figlio non riguardava la sua supposta omosessualità — che era pronto ad accettare — ma la sua vocazione religiosa. In Questione di Karmail ricco e spaesato Giacomo (Fabio De Luigi) si convince grazie ai farfugliamenti di un supposto veggente (Philippe Leroy) che l’anima del padre suicidatosi quando aveva solo quattro anni si è reincarnata nello scombinato imbroglione Mario Pitagora (Elio Germano).
Con cui naturalmente inizierà una relazione fatta di dedizione (da parte di Giacomo) e di bugie (da parte di Mario). Niente di particolarmente originale, se non fosse che dopo l’«introduzione» tutto il film procede su binari previsti e prevedibili, senza più un’idea o una trovata, per arrivare al più rassicurante (e scontato) degli happy ending.
E proprio questo mi sembra il più diffuso dei (molti) peccati originali del cinema italiano: la sciatteria, la tendenza di accontentarsi di un’ideuzza striminzita, buona forse per accalappiare l’attenzione del produttore di turno, per poi lasciare che tutto se ne vada nel più prevedibile e scontato dei modi.
Non basta immaginare che per sfuggire a chi li vuole morti i due musicisti testimoni del massacro di San Valentino si travestano e si uniscano a un’orchestra femminile in viaggio per la Florida: dopo quell’idea ce ne vogliono molte altre, tutte capaci di «far suonare le campane» come sosteneva Billy Wilder, per fare una commedia che sia una gioia per gli occhi e per la mente. Invece in Italia quelle famose campane si sentono suonare sempre meno. Anzi, quasi mai.
ALESSANDRO GASSMANN E MARCO GIALLINI IN BEATA IGNORANZA
Sicuramente non succede vedendo l’imbarazzante Beata ignoranza (di Massimiliano Bruno), lo sconclusionato Omicidio all’italiana(di Maccio Capatonda), il fiacco Mamma o papà(di Riccardo Milani) l’inconsistente Smetto quando voglio – Masterclass (di Sydney Sibilia) o il vuotissimo Mister felicità(di Alessandro Siani).
E non parliamo degli ultimi cinepanettoni. Nel caso specifico di Questione di Karmapoi, man mano che il film precede ti sembra di essere di fronte all’illustrazione di un lungo scalettone, quello che gli sceneggiatori scrivono tra il soggetto e la sceneggiatura vera e propria: un elenco dettagliato di scene e di dialoghi che però non hanno ancora la forma di un film. Appunti per un’opera da realizzare.
Non c’è un’idea di regia che sia una (e per favore non citiamo l’espediente di far crescere il piccolo Giacomo ogni volta che esce e entra nella sala di casa: non è un’idea, è un plagio) e il resto è solo una specie di story-board animato a cui neppure gli attori (oltre ai due protagonisti ci sono Stefania Sandrelli, Isabella Ragonese e Eros Pagni) sanno infondere un po’ di anima. Continuo a pensare che il cinema sia un modo di guardare, un modo di raccontare per immagini e invece mi sembra che ci si riduca sempre più a impressionare su un supporto digitale barzellette e ideuzze, altro che pensare dove va messa la macchina da presa o chiedersi se un movimento di macchina sia una questione di morale o no.
Certo, non tutti possono essere Godard ma un po’ più di ambizione, di orgoglio di sé e del proprio mestiere (e non parlo solo di registi e sceneggiatori, ci metto dentro anche gli attori che dovrebbero chiedersi cosa stanno interpretando, per non parlare dei produttori), un po’ più di idee e di fatica forse aiuterebbe a migliorare il nostro cinema. Perché alla fine nemmeno il pubblico sembra gradire molto: negli ultimi quattro o cinque mesi c’è una commedia italiana che ha incassato quanto si aspettavano produttore e registi? Faccio fatica a trovare un titolo…