Marco Giusti per Dagospia
“Andava visto”, ha sentenziato tristemente un signore attempato uscendo ieri sera dalla sala 5 del Giulio Cesare. “Il film più noioso dell’universo”, mi aveva scritto un’amica che lo aveva appena visto. Che palle, ho pensato tra me e me riguardo al film, dopo essere stato attento, almeno spero, a non russare tra uno sbadiglio e l’altro.
Eppure mi ero preparato, a Cannes il film era stato ben accolto, si pensava pure che potesse vincere, tutti ne parlavano bene, era stato comunque premiato il protagonista, il meraviglioso Kôji Yakusho, star di filmoni spettacolari, “The Blood of Wolves”, “13 Assassins”, anche se aveva iniziato col non dimenticato “Tampopo”.
Invece mi è sembrato che il film, pur impaginato preziosamente dalla fotografia e con bellissime musiche come la “Perfect Day” di Lou Reed, “Redondo Beach” di Patti Smith, “The House of the Rising Sun” degli Animals, “Brown Eyed Girl” di Van Morrison, non andasse da nessuna parte.
E questo protagonista, il misterioso e solitario Hirayama, che di giorno pulisce i cessi con la tuta “Tokyo Toilet” (elegantissima, la voglio!), un asciugamano bianco come sciarpetta, le chiavi di mille cessi attaccate ai pantaloni, il pullmino blu, e dal tardo pomeriggio ha una routine sempre uguale, bagni pubblici, baretto, vecchio libro da leggere (Faulkner…) prima di andare a letto, non ha alcuno sviluppo fino alla fine.
Magari mentre dormivo era stato spiegato qualcosa. Perché fa un lavoro così umile? Boh? Cosa vuole dalla vita? Mah? Per anni abbiamo visto film dove non accadeva nulla. Lo so. E per anni abbiamo ascoltate le canzoni che Hirayama e Wenders sentono sulle cassette (altro che spotify).
Magari questo “Perfect Days” è un grande omaggio a tutto quello che abbiamo ascoltato, letto, visto e vissuto. Ci sta. La cultura borghese che si specchia nell’illusione di una felicità legata alla ripetizione delle piccole cose della vita. Certo, abbiamo tempo da perdere.
Ora, da anni Wim Wenders, celebrato maestro che tutti i cinephiles non possono non conoscere, non fa un bel film. Fa questi polpettoni più inerti che noiosi che lo portano in giro per il mondo, dove ripete quello che è stato. Alla fine anche questo “Perfect Days”, malgrado la presenza di Kôji Yakusho, malgrado il vago ricordo di “Tokyo-ga” e del film-saggio sul maestro Ozu (il protagonista si chiama Hirayama come il protagonista dell’ultimo film di Ozu), non è altro che un elenco di brani registrati su cassetta. E di gabinetti ben puliti che altri sporcheranno presto. Capisco la metafora. Ma il senso? Scritto in tre settimane, girato in 17 giorni. Ma perché andava visto? In sala.
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