IL CINEMA DEI GIUSTI – “BENEDETTA”, ULTIMA OPERA DI PAUL VERHOEVEN, È BLASFEMO, PROVOCATORIO, IRRIVERENTE, MA ANCHE COSÌ DIVERTENTE E NARRATIVAMENTE PERFETTO, COMPLESSO, SONTUOSO E BENISSIMO RECITATO - ANCHE SE POTREBBE SEMBRARE UN VECCHIO TONACA MOVIE, LA STORIA È PIÙ O MENO QUELLA, PIENO DI NUDITÀ E DI GRANDI SCOPATE LESBO, RICONOSCI LA MANO DEL VECCHIO MAESTRO NELLA STRUTTURA NARRATIVA - VIDEO

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Marco Giusti per Dagospia

 

“O dolce Cristo!” cinguetta suor Benedetta mentre si fa penetrare dalle dita di Suor Bartolomea. Ma è più pratico e arriva più dove deve arrivare una statuetta della Madonna levigata alla base dalla stessa Suor Bartolomea. Ma in un sogno è lo stesso Cristo in croce che chiede a Benedetta di spogliarsi nuda davanti a lui e di togliergli le mutande. Solo che sotto non trova gli attributi maschili.

 

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Blasfemo? Certo, è blasfemo, provocatorio, irriverente, ma anche così divertente e narrativamente perfetto questo “Benedetta”, ultima opera di Paul Verhoeven, complessa, sontuosa e benissimo recitata da Virginie Efira e Daphne Patakia come Benedetta e Bartolomea, Charlotte Rampling come badessa e Lambert Wilson come il nunzio papale.

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Anche se arriva con due-tre anni di ritardo sui nostri schermi, e non si capisce perché, anche se è buttato un po’ via nelle sale italiane, è un esempio preciso della macchina narrativa, così precisa da sembrare una prigione, del cinema di Verhoeven, capace di passare da “Robocop” a “Elle”, da “Starship Trooper” a “The Black Book”, da “Showgirls” a questo classico tonaca movie, senza perdere nulla della sua autorialità.

 

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Nel senso che, anche se potrebbe sembrare un vecchio tonaca movie, la storia è più o meno quella, pieno di nudità e di grandi scopate lesbo, di peste e di torture, riconosci la mano del vecchio maestro nella struttura narrativa, piena di invenzioni, e nell’erotismo diffuso che non ha affatto bisogno del nudo. Bastano sguardi, battute, mani che si sfiorano. “Ognuno ha diritto a un peccato. Qual è il tuo?” chiede a Benedetta una più anziana sorella che nel monastero sconta il peccato, e è un peccato nell’Italia cattolica, di essere ebrea.

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Cresciuta nel convento della Teatine di Pescia dopo che la famiglia, che non ha abbastanza soldi per farla sposare con una dote adeguata, preferisce chiuderla lì pagando il dovuto (“Si paga per entrare!” dirà la badessa), Benedetta, interpretata da una strepitosa Virginia Efira, confonde costantemente il fatto di essere la sposa di Cristo, con la passione erotica. Ha continue visioni, serpenti che le entrano da tutte le parti che vengono sconfitte da Cristo, una voce maschile che le esce all’improvvisa e la precisa passione per il seno nudo della Vergine che diventa il suo stesso seno visto allo specchio e il seno di Bartolomea, suo doppio.

 

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“Sei bella. Puoi vederti riflessa nei miei occhi”, dice Benedetta a Bartolomea. Fin da bambina, Benedetta ha bisogno di una continua messa in scena della passione, del sesso, della stessa sofferenza (“La sofferenza è il solo modo per comunicare con Cristo”) e Verhoeven, soprattutto nella prima parte del film, e nel grandguignolesco finale, punta tutto sulla rappresentazione teatrale.

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Come se fosse il solo modo che ha Benedetta di vivere la sua vita di clausura, inseguendo la propria immagine, mentre la badessa di Charlotte Rampling, è ben ancorata nella realtà, anche politica del tempo. Come non avrebbe capito in nessun modo un regista americano, il mondo descritto nel film, l’Italia cinquecentesca, è dominata da rapporti di classe, di sesso e di politica.

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Non c’è un personaggio maschile che non si presenti da subito secondo dei codici precisi di riconoscibilità di classe e di potere. E tutta il finale è di fatto una rivolta delle “femmine pazze” contro i torturatori cattolici. Se vi piace il cinema di Paul Verhoeven, non ve lo fate scappare. In sala.

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