1. INTERVISTA A MARIO DONDERO
Malcom Pagani per ''il Fatto Quotidiano''
uninsolita conversazione fra cittadini la giovane mamma che vive allovest e il soldato guardia di frontiera della repubblica democratica tedesca, berlino, 1989 mario dondero
Sarà per attitudine: “Mentre i miei compagni di un tempo erano impegnati a far quattrini con la stampa illustrata parigina io mi trastullavo con l’illusione della fotografia d’impegno” o per memoria storica dei morsi milanesi: “Alla pensione Solferino gestita da Maria Tedeschi si pagava senza deroghe ogni 30 del mese, non avevamo una lira in tasca, mangiavamo insalate”, ma il signor Dondero ha ancora fame. Porta una piccola borsa sulle spalle, una tracolla di cuoio al collo e con una Leica poco più grande di una mano, indossa leggero il mestiere che iniziò senza particolare convinzione più di sessanta anni fa.
Tra interni di famiglia pasoliniani, diluvi sotto cui fissare un anomalo George Best in cravatta o atmosfere cittadine in cui mettere in posa Roland Barthes, Picasso o Samuel Beckett, Dondero non ha mai aspettato Godot. È partito. È tornato. Ha fatto la guerra. L’ha vista. Ha impresso la storia e vinto premi in serie, ma per anni non ha accettato di promuovere mostre a suo nome: “Mi opprimeva l’idea di dover dare per certa la mia presenza. ‘Se sarò lì per gloriarmi’ –pensavo-‘le cose accadranno sicuramente altrove’”.
pier paolo pasolini durante le riprese per comizio damore sulla spiaggia di viareggio, 1965 mario dondero
Oggi Dondero vive in pace. Si diverte. Scatta quando ha voglia. Chiede sempre permesso: “In certi tram lenti che quelli nati nel 1928 hanno avuto la fortuna di vedere, nelle facce dei viaggiatori, c’era il cinema. Avrei fotografato senza sosta, ma farlo clandestinamente mi pareva osceno” e con la cresta bianca e il volto da noir francese avvicina il letterato o la barista con l’equanime formula che chiama “curiosità”. Un mezzo inchino, un sorriso, e a tutti porge- con l’eleganza formale che ammaliò Gianni Berengo Gardin: “Voglio imitarlo, anche nel vestire”- la stessa domanda di ieri: “Scusi, posso farle una foto?”. Occasionale musa riottosa, sorridente, infine conquistata.
paternit, dakar (senegal), 1970 mario dondero
Le hanno detto sempre di sì?
È difficile che si sottraggano. Io non insisto mai. Le persone le guardo con simpatia. Parto da un pregiudizio positivo. L’ho sempre fatto e forse gli altri lo avvertono. Se ne accorgono.
E quindi si fanno fotografare.
mario dondero ritratto da elisa dondero
Ma è un’apertura reciproca. Non ho mai fotografato qualcuno che mi stesse antipatico. È una questione epidermica. Un’eredità della carica vitale degli inizi. All’epoca dei nostri vent’anni eravamo tenuti in piedi da un’autostima che rivista oggi forse è eccessiva.
Ha paura del consenso?
Temo l’eccessiva benevolenza e l’ingannevole rifrazione dell’età. Il passato sembra sempre migliore di quel che è, ma anche se gli indicatori economici virano al peggio, le ingiustizie abbondano e si percepisce una certa tristezza, a me il mio simile continua a piacere molto. Sarei felice di vedere gente meno depressa. Pur poveri, da ragazzi noi credevamo in noi stessi. Pensavamo persino di poter essere utili agli altri.
Lei negli anni ’50 era a Milano.
libert, egalit, fraternit una manifestazione a parigi, 2011 mario dondero
A Milano, prima di riscoprirmi apolide sulla rotta tra Genova e la Lombardia, ero nato. Poi i miei si separarono e io archiviai il dispiacere per riscoprirmi smanioso padrone di due realtà cittadine. Andavo. Venivo. Da un lato avevo il mare e la gente del porto che per umanità ho sempre amato, dall’altro la Brera del Bar Jamaica, la nostra università alternativa. Pittori, fotografi, scrittori, perdigiorno, madonnari ed espedienti di arte varia nell’Italia che usciva dal grigiore della Guerra.
Guerra che lei aveva visto, giovanissimo, con i Partigiani.
la sorbona occupata allesterno la polizia attende oltre i cancelli, parigi, maggio 1968 mario dondero
In Val D’Ossola, a sedici anni. Respirando la paura e la solidarietà. Mi salvai per un soffio. La guerra costringeva a pensare e la Milano degli anni ’50 a essere creativi. Al Jamaica erano passati Quasimodo e Buzzati, tendere al coraggio ci veniva naturale.
Lei alla pensione Solferino divideva la camera con Ugo Mulas.
Facevamo una vita faticosissima, delirante, con orari folli, poesia e incontri improbabili. Ugo lo avevo conosciuto ai giardini dello zoo. Eravamo entrambi vagabondi. Senza méta e senza niente di meglio da fare, ci mettemmo a conversare. Mulas veniva dal bresciano e aveva una sensibilità straordinaria. Milano gli pareva enorme. Facemmo amicizia. Un’amicizia vera: “dividiamo la stanza” mi disse. E io non esitai.
i tre amici, limira, turchia, 1976 mario dondero
Ricambiò indirizzandolo verso la carriera fotografica.
Non ho mai avuto l’idea dell’amicizia come terreno di scambio, ma Ugo vagheggiava la carriera poetica ed essendogli l’idea della fotografia lontanissima, mi permisi di suggerirgli l’ipotesi. Ci eravamo appena licenziati. Lui da Deltafoto, io da Le Ore. In quel piccolo gruppo di giornalisti o di annoiatissimi venditori a rate di libri Einaudi che sognavano di fare i fotografi c’erano nomi che mi seguirono durante le successive peregrinazioni parigine e si sarebbero poi affermati a iniziare proprio da Mulas.
gorbaciov e reagan al summit di ginevra, 1985 mario dondero
Prima di diventarne il fotografo ufficiale, Mulas con lei scoprì la Biennale.
Era il ’54. Partimmo per Venezia con due macchine fotografiche forse nostre, forse rimediate chissà come. Faceva un freddo polare, c’era una luce magnifica e a Piazza San Marco, appena arrivati, vedemmo Ungaretti. Scattammo. Le nostre prime foto a quattro mani.
francis bacon, narratore tragico della condizione umana, fotografato nel suo studio, universalmente conosciuto per lestremo disordine. londra, 1961 mario dondero
Alla Pensione Solferino dormivano altri protagonisti di quel mondo.
Mi ricordo il Carlone de La vita agra di Luciano Bianciardi, Carlo Bavagnoli, che ci parlava di Life e dell’America e poi a scattare per Life, per quasi dieci anni, finì davvero. Era una città interessantissima, Milano. Perfetta per uno come me che prima di scoprire l’austerità del mestiere, nella fotografia vedeva soprattutto un modo per gabbare lo santo.
L’obbiettivo era questo?
durante le manovre della legione straniera nel deserto a gibuti, 1998 mario dondero
Non c’è dubbio. Ancora oggi mi sembra di aver lavorato solo pochi mesi nella vita. Quelli in conceria. Un odore insopportabile. Appena salivo su un mezzo pubblico si aprivano le onde. La gente se la dava a gambe. Il giornalismo naturalmente era tutta un’altra storia, una storia più comoda, ma io ero e sono sempre stato pigro.
A contare i chilometri percorsi non si direbbe.
accettura (lucania), festa del maggio. luomo che voleva raggiungere la luna, 1994 mario dondero
Dico sul serio. Mi è sempre piaciuto dormire, godermela, non inseguire nessuno. Se nella vita fossi stato meno pigro, avrei potevo fare mille altre cose. Il giornalismo scritto, ci avevo anche provato, non era tra quelle mille. Cercare le notizie, documentarsi, tentare di sapere in precedenza quello che qualsiasi scatto ti restituisce nella sua immediatezza mi sembrò subito un affare complicato. Un amico mi suggerì la strada della foto, appresi alla buona qualche rudimento e mi trovai con gli altri omologhi a cercare di vendere i miei servizi.
Una giungla?
Una giungla. Andavi con le foto in redazione e conducevi trattative in tempo reale. Sono stato sempre fortunato. Ho convinto i miei committenti a mandarmi dove mi spingeva la curiosità. E la curiosità abbatteva ogni freno inibitorio, ogni considerazione sulla sicurezza, ogni vigliaccheria. Diventava un altro tipo di esperienza. Del primo servizio, durante la rivolta al Manicomio criminale di Reggio Emilia, mi ricordo ancora i rumori.
E i committenti erano sempre d’accordo sulle sue preferenze?
Li sceglievo con cura. Se cambiava un direttore e quel direttore non mi garbava, socchiudevo la porta e senza piazzate andavo altrove. Diversamente non sapevo fare e non ho mai imparato a fare. Se gli altri hanno le ville al mare e io no, non mi lamento. Me la sono voluta. Me la sono cercata. Poi mi rimangono comunque le chiavi del castello di Sorci. Alberto Barelli, un gentiluomo, mi ospita nella sua sontuosa cucina senza pretendere nulla. Sono soddisfazioni.
La pellicola muore, ma lei è rimasto affezionato alla macchina fotografica dei suoi inizi.
Non ho mai avuto bisogno di imparare altro. La mia conoscenza tecnica in campo fotografico è largamente sufficiente a soddisfare le mie necessità. Del banco ottico o degli obbiettivi sofisticati che alterano l’immagine per abbellirla non me ne faccio nulla. L’estetica per l’estetica mi ripugna. Il leziosimo mi insospettisce. Mi fa pensare, parlo ad esempio della foto bellica, che spesso l’estetica sia usata per non raccontare il vero. Sono perché la verità non sia tradotta, sono per la semplicità-semplicità. Per il vero-vero. Nelle foto. E nella vita.
È stato sempre sincero?
La vita è anche un insieme di doveri. Famiglia, figli, responsabilità. Ho fatto del mio meglio. Magari non sono stato brillantissimo. C’è stato un tempo in cui le disavventure sentimentali erano l’inconsapevole motore del lavoro. Un anno lasciai Milano con il cuore scosso per una storia d’amore naufragata e me ne andai in Versilia per fotografare un qualunque giorno d’estate degli italiani in vacanza. Rimasi tre mesi. C’erano Bruno Martino, João Gilberto, un pezzo dell’Italia gaudente e in trasformazione di cui Il Sorpasso accennava alcuni tratti.
Una prigione involontaria?
Una malìa. A volte con la macchina fotografica in mano senti un suono immaginario e ti fermi nel posto in cui sei perché quello che osservi non esaurisce il suo stimolo. Nel prolungare la sosta in Versilia fu fondamentale leggere un libro di Mario Tobino e la sensazione che probabilmente, in quella gita inattesa, si celava anche qualcosa di terapeutico. Tutta quella gente in fila verso i lettini, il sole, le angurie. L’allegria degli altri mi faceva bene. Se sei molto interessato agli altri, sei molto meno preoccupato di te stesso. Meno nevrotico. Meno ansioso.
E osservando le cabine l’ansia svaniva?
Ma una cabina non è mai soltanto una cabina. Dietro ci sono sempre uomini, donne, respiri, sorrisi, pianti. In una bella foto c’è una casualità che lambisce l’eterno.
Dietro la porta di Luciano Bianciardi che storia c’era?
La storia di un senso di colpa che divide esattamente in due la sua esistenza. Il giovane Bianciardi che conobbi quando faceva il bibliotecario a Ribolla o il Luciano alla ricerca di un letto a cui consigliai la pensione Solferino non è sicuramente la stessa persona che incontrai in uno dei tanti ritorni da Parigi, quando era già uno scrittore famoso assediato dagli ammiratori, dai fantasmi dell’alcool, dei rimpianti e dell’infelicità. Ai tempi del Jamaica giocavamo insieme fino a tarda notte. Tiravamo monete da dieci lire contro la parete nel tentativo di avvicinarle il più possibile al muro e provavamo a vincercele reciprocamente.
Nessun punto in comune tra i due Bianciardi?
Tra i due passava la distanza che c’è tra il giorno e la notte. Il primo Luciano era simpaticissimo. Solare. Lasciare la famiglia e la vita antica per l’avventura milanese e per Maria Iatosti, fu un trauma esistenziale dal quale Bianciardi non si riprese mai.
La sua vita anarchica, raccontata in uno splendido libro di Pino Corrias, non fu felice.
Fu tormentata e tragica, come capita ai grandi artisti. Una vita simile a quella di Pasolini.
Lei lo conobbe bene e lo fotografò spesso.
A Roma ero vicino di casa di Laura Betti. Pier Paolo la andava a trovare e Laura metteva sul fuoco dei risottini deliziosi. Mi univo al gruppo e si parlava per ore. Pier Paolo era timido, ma di me si fidava. Giocammo a pallone un paio di volte e lo fotografai con sua madre nella casa dell’Eur, frequentando il set de La ricotta e scattando in moviola, mentre lavorava al montaggio de La Rabbia.
Il progetto non gli piaceva, soffriva, il dualismo con Guareschi, surrettiziamente messo in piedi dal produttore del film per ragioni che oggi si direbbero di puro marketing, lo disturbava. Guareschi lavorava nella saletta a fianco. I due si ignoravano reciprocamente. Quando Pier Paolo morì all’Idroscalo ero in Francia. Giocavo a ping pong. Rimasi con le braccia in aria, a mezz’asta, immobile, quasi come Manfredi e Stefania Sandrelli in C’eravamo tanto amati.
A lei Laura Betti preparava risotti, ad altri riservava veleno.
Ma le testimonianze retrospettive fanno quest’effetto, sono fallaci e anche se finiscono per formare la reputazione di una persona e sembrano più articolate, raccontano in fondo molto meno di una fotografia. Laura Betti era così. La blandivano teorie di fedeli ammiratori e la denigravano integralmente torme di detrattori. Poteva effettivamente prendersela con chiunque senza ragioni apparenti o essere soave. Se le stavi cordialmente antipatico, eri finito. Urlava, strepitava, metteva paura. Con me era adorabile, quasi filiale. In ogni caso aveva un talento immenso. Alcune canzoni da lei interpretate con testi di Fortini e Calvino sono sublimi. Da Cesaretto, quando le notti erano magiche, c’era anche lei.
Cesaretto, trattoria romana in Via della Croce.
E no. Molto di più. Un cenacolo intellettuale, una cucina democratica in cui trovavi il Re di Svezia, l’operaio e il regista decorato. Con Luciano Guerra, il proprietario dell’antica fiaschetteria Beltramme poi diventata Cesaretto, sedersi era una gioia. Si pagava solo quando si poteva ed era al bancone che Flaiano, Parise e Moravia srotolavano le loro storie. A parte qualche raro scatto per far contento Luciano, da Cesaretto non ho mai fotografato. Immortalare un soggetto con la bocca piena mi pareva ineducato, poco deontologico, un poco riprovevole. Un po’ come parlare di me stesso.
Lo fanno un bel libro appena uscito, Lo scatto umano scritto con Emanuele Giordana per Laterza e un film sulla sua vita. Tra narrazione e immagini si passa da Robert Capa a Panagulis.
TONI SERVILLO FOTO DI MARIO DONDERO
A Marco Cruciani, il regista del film, ho offerto mesi di sincero scetticismo. Mi sembrava un ladro intento a rubarmi la vita. In realtà raccontarmi in un libro e davanti a una telecamera è stato utile e mi ha permesso di conoscermi meglio di quanto mi conosca davvero. Di rivedere volti, ragioni e motivazioni passate. Capa è stato un assoluto punto di riferimento ideale e lavorativo e di Panagulis, condannato a morte due volte in un solo giorno dal regime dei Colonnelli, non ho dimenticato la testa china persa in un quadro di follia. Nell’aula del tribunale militare greco c’era un mare di gente eccitata.
La Leica non faceva rumore e così scattai. Da lontano, con la coda dell’occhio, vidi avanzare lentamente un gendarme. Veniva verso di me, non c’erano dubbi. Così tolsi rapidamente il rullino dalla macchina e lo passai a Camilla Cederna. Quando la guardia si presentò davanti a me gli aprii la Leica senza aspettare ordini. Con il fiato in gola, gli diedi un rullino vergine.
Almeno un rimpianto, Dondero. Magari una mancata foto.
MARIO DONDERO EUGENIO SCALFARI
Il mio vero rimpianto è Zeman. Non l’ho mai fotografato, ma ne sarei felice. Ha un profilo unico, è un filosofo, un vecchio saggio. Potrebbe essere un attore del miglior cinema impegnato della vecchia Cecoslovacchia o un condottiero alla testa di una battaglia giusta. Lo trovo meraviglioso.
L’allenatore potrebbe concederle lo spazio che le negò Chagall.
PINO E MICOL CON MARIO DONDERO
Era molto anziano Chagall, molto malato. Mi presentai al suo cospetto intimidito. Mi chiese un tesserino giornalistico e io che non parlavo neanche un buon francese, annaspai. Rinunciai. Lo liberai dalla mia presenza. Anche saperlo fare al momento giusto è un dono.
Imparare il francese le servì nel frastagliato mappamondo africano. Nel libro di Giordana racconta del carcere in Guinea.
Ci presero per inflitrati portoghesi, per mercenari al soldo della controrivoluzione. Mi interrogarono a lungo e mi sbatterono in una cella fetida per due giorni. Tutto sommato mi è andata molto bene.
Ha visto tutto. Ha conosciuto tutto. Che ambizione le è rimasta?
Quella di centellinare il tempo, trattarlo con dolcezza, ingannarlo e assaporarlo come fosse un bicchiere di Pastis all’ombra di un platano in Provenza.
2. DONDERO - UN OCCHIO AL SERVIZIO DEGLI ULTIMI
Antonio Gnoli per “la Repubblica”
Solo a Mario Dondero, nella sua malattia terminale, poteva accadere di chiedere davanti alla meraviglia di medici e infermieri di farsi un ultimo pasto in trattoria. E così accadde. Per ben tre volte. Mi dicono che mangiò di gusto e accennò Les Feuilles Mortes — uno dei suoi cavalli di battaglia — una canzone che gli somigliava, prima di farsi riportare nel luogo della sua ultima degenza. È morto ieri, a 87 anni, a Fermo dove mercoledì ci saranno i funerali. Davvero, Mario fu speciale.
Ci si era fuggevolmente incontrati in occasione della sua grande mostra a Roma. L’ultimo omaggio a una storia per certi versi straordinaria. Vissuta con leggerezza e passione. Era lì, nel bellissimo spazio delle Terme di Diocleziano, affaticato ma felice. In mezzo alla gente. Vecchi amici e tanti giovani. Sbalorditi dal lavoro che nel corso di una vita aveva saputo svolgere e raccogliere come fosse un grande romanzo sul mondo.
Consapevole che la storia la fanno gli altri e riluttante a celebrarsi. Forse in omaggio al frutto anarchico che ha assaporato come la sola forma di libertà autentica. E quella sera, tra le centinaia di foto, mi sembrava contento di essere ancora una volta nel posto giusto al momento giusto. Anche se quella coincidenza, tra il luogo e il momento, sembrava non lo riguardasse personalmente. In fondo poche persone come Mario Dondero si sono disinteressate al proprio destino. Alla propria storia. Una trascuratezza che è stata insieme modestia e rispetto dell’altro. Artigianato, grandissimo, e storia sociale.
Aveva attraversato esperienze aspre e precoci. A 16 anni era stato in montagna con i partigiani. Catturato dai fascisti si salvò miracolosamente. La guerra portava con sé i pericoli e le tragedie. Poi vennero gli anni della speranza. L’idea di entrare in una nuova vita. Aveva una passione naturale per il giornalismo. Mario era nato a Genova. Avrebbe dovuto fare il marittimo seguendo le tradizioni familiari. I suoi cugini erano marinai. Si iscrisse al nautico di Camogli e poi invece si ammalò e gli fu consigliato il ginnasio.
Nei primi anni Cinquanta si stabilì a Milano. C’erano i quattro punti cardinali: la Scala, il Piccolo, l’Accademia di Brera e il Giamaica.
Dondero cominciò a frequentare quest’ultimo. Era un bar e un ritrovo di gente che avrebbe fatto un po’ di storia culturale. Vi conobbe Alfa Castaldi che sarebbe diventato un eccellente fotografo di moda. Si riconobbero dal fazzoletto rosso di partigiano. Al Giamaica si incontravano artisti come Gianfranco Ferroni e Piero Manzoni. Fotografi alle prime armi come Ugo Mulas e perfino il fratello di Antonio Gramsci che giocava a scopa con il Maestro Confalonieri.
Bianciardi ha illustrato con La vita agra che cosa sia stata quella stagione, che per Dondero cominciò nel 1952 e finì due anni dopo. A Parigi arrivò alla fine del 1954. Ho ancora sotto gli occhi la sua fotografia più celebre. La più letteraria. Un gruppo di premi Nobel, tra cui spiccava serafico Samuel Beckett, davanti all’entrata delle edizioni Minuit. Fu Mario che in un momento ebbe l’idea di raccogliere quel parterre di scrittori che quasi senza saperlo davano inizio a una stagione segnata dal Nouveau roman.
Tre cose prese dalla Francia: la Rivoluzione (quella dell’89 e in parte il ‘68); le donne e qualche fotografo. Tra questi Willy Ronis — un ebreo di Odessa, emigrato in Francia — il cui sguardo stregò Dondero. Conservava ricordi bellissimi di Henry Alleg, un fotoreporter arrestato e torturato durante la guerra di Algeria dall’Oas. Furono anni straordinari cuciti dall’esistenzialismo e dagli scrittori che Dondero frequentava: Arthur Adamov, Claude Simon e dagli attori — spesso emigré — come Serge Reggiani e Yves Montand.
Il talento non lo ha reso ricco. Si aveva la sensazione che la sua carriera sarebbe potuta essere molto più confortevole e omaggiata. Detestava lavorare a lungo e stabilmente per una testata. Temeva che avrebbe finito con l’appiattire il suo stile, spersonalizzarlo: «Un fotografo », disse, «non può che essere un freelance o, meglio, un cane sciolto». Si definiva di sinistra. Gli piaceva, istintivamente, stare dalla parte dei deboli. E non aveva rinunciato all’idea che si potesse, chissà, forse un giorno, costruire un mondo nuovo. Senza eccessi ideologici né utopie. C’era in lui qualcosa che sfiorava la religiosità. Un senso di laicissima propensione verso il mondo che egli chiamava pietas. Era l’amore per la gente. O meglio per le classi umili.
Senza essere credente proiettava la tensione verso l’altro, non a caso gli era capitato di intraprendere faticosi viaggi con gli amici di Emergency in Afghanistan. Si muoveva sempre con uno spirito contro, contro lo strapotere contro ciò che opprime. E si è sempre considerato un fotografo politico. Dondero è stato uno dei grandi fotoreporter degli ultimi cinquant’anni. Aveva una regola: non servirsi degli uomini per fare fotografia, ma fare fotografia per capire meglio gli uomini.
Nel suo lavoro di reporter ha cercato di essere il più semplice e lineare possibile. Raccontando la realtà in modo aderente al vero. Era il valore che egli dava alla verità del momento. Mentre provava fastidio per l’abbellimento, l’estetica, l’artificioso. Sapeva che esistono molti modi di fare fotografia. Ma chi vuole raccontare la realtà, non la inventa. La osserva e la interpreta. Anche, e forse soprattutto, con il pathos che ogni gesto umano a volte nasconde.
edoardo sanguineti da mario dondero
Consapevole che l’arroganza, il sopruso, la violenza sono tratti altrettanto ineliminabili. E non a caso le foto che egli ha realizzato nella Fortezza di Terezin, in quel teatro di una crudeltà senza appello dove gli ebrei venivano rinchiusi e torturati, stanno lì a mostrarci la potenza devastante del nostro passato. Le porte spalancate delle celle, gli spazi minuscoli e temibili, occupati degli interrogatori della Gestapo, gli esterni di quella minacciosa costruzione dicono, quando anche il dire stenta a farsi parola, a rendersi comunicazione.
Che ne è della immagine, se l’immagine testimonia l’invedibile? Fu l’interrogativo dei suoi ultimi tempi. Senza possibile soluzione che non fosse quella dettata da una coerenza e da una dignità di mestiere.
L’ho rivisto, un’ultima volta, all’ospedale di Fermo. Dormiva. «Dopo giorni di sofferenza finalmente ha un’aria serena», mi ha detto Laura, la straordinaria compagna degli ultimi anni. La stanza piccola e luminosa. Il respiro leggero. Poi si è svegliato. Il volto scavato, calmo e gentile. La gentilezza, mista alla generosità, lo hanno fatto molto amare. Dai figli. Dagli amici. Dalle donne. Dalla vita.
Born to Walk. Strano. Se penso oggi a lui vedo l’uomo uscito di scena, la cui testimonianza resta tra noi. Ci precede e ci ricorda un signore con una vecchia macchina fotografica e uno sguardo che sembra uscito da una canzone di Yves Montand. Mario è stato un intrattenitore formidabile: «Oh vorrei tanto che tu ricordassi i giorni felici quando eravamo amici».
Fu un narratore di storie costruite con la lingua degli istanti. Lo vedo ancora mentre si offre ai rischi dell’esperienza sapendo che ogni cosa accade perché è così che deve essere.
stefania sandrelli photo mario dondero