Marco Giusti per Dagospia
E stasera che vediamo? Beh. Stasera abbiamo “Giù la testa”, su Rai 3 alle 20, 30. l’ultimo western diretto da Sergio Leone, anzi, come diceva lo stesso regista, più correttamente “è un avventuroso ambientato all’epoca della rivoluzione messicana”. Anche se non è il film più amato dai suoi fan, e neanche quello considerato generalmente più riuscito dalla critica, rimane un film controverso un po’ per tutti, a cominciare dal regista. “È un film che non so collocare bene. Lo amo immensamente, perché è quello che mi ha dato più angoscia, dubbi, disperazione.
A un certo punto, ero quasi tentato di abbandonarlo, e devo a mia moglie se ho avuto la costanza di arrivare fino in fondo”. Apre con una grande citazione di Mao, del resto i tempi sono quelli, il post ’68 non solo europeo: “La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza”. Ma la grande operazione di ricongiungimento tra cinema di genere e Nouvelle Vague, qui non gli riesce. Anche perché non lo vede come un film da dirigere all’inizio, ma solo da produrre.
E finisce per perdere molto tempo dietro a un progetto al quale non crede completamente e che spesso gli sfugge dalle mani. “È un film che avrei dovuto soltanto produrre. Ma il regista Peter Bogdanovich, col quale avevo cominciato a lavorare, concepiva il soggetto in uno stile vecchia Hollywood. Poi gli attori hanno rifiutato di lavorare con il mio assistente. Allora ho proposto a Sam Peckinpah di dirigere il film, ma Steiger ha accettato la parte solo a patto che fossi io il regista”. In pieno ’68, con l’Europa in subbuglio e il western ormai nella sua fase di massimo sviluppo e quindi di imminente declino, Leone riceve una specie di giovane Bertolucci americano alla sua corte, molto raccomandato dalla United Artists, che gli aveva non solo distribuiti i suoi film in America, ma anche in gran parte finanziato.
È Peter Bogdanovich, il più raffinato regista cinéphile che abbia prodotto Hollywood al tempo. Viene dalla factory di Roger Corman, ha diritto un solo film, lo stravagante Targets con Boris Karloff, ma è stato a lungo accanto ai maestri John Ford e Howard Hawks. Per questo, probabilmente, Leone lo vuole vicino a sé. Racconta lo sceneggiatore Sergio Donati: “Bogdanovich venne a Roma e cominciammo a fare delle riunioni abbastanza esilaranti. Leone gli raccontava la sceneggiatura scena per scena: anzi, gli dettava ogni movimento di macchina, finendo invariabilmente col descrivere con le mani a taglio sugli occhi la più classica delle sue inquadrature. "ZOOM!", gridava cercando di entusiasmare l'interlocutore.
"I never use the zoom", ribatteva gelido Peter. "I HATE zooms". Bogdanovich aveva grossi problemi di denaro e il contratto con Leone sarebbe stata la salvezza, ma aveva anche delle idee molto precise e ostinate sul modo di girare un film e non mollava d'un centimetro. Finì che dopo qualche settimana Leone lo cacciò, sentenziando : "È uno stronzo".” Per Vincenzoni lo scontro avvenne inesorabilmente perché “Sergio era arrogante e ignorante, e Bogdanovich era arrogante e istruito”. Anche Leone dipingeva questo giovane regista americano che era arrivato a Roma e non la smetteva di fare vedere il suo unico film, Targets, a tutta “l’aristocrazia pseudo-intellettuale di Roma”. Poi volle vicino a lui la sua donna, la scenografa Polly Platt. Allora si mise a scrivere una dozzina di pagine in inglese che, una volta tradotte, convinsero Leone a rimandare il genio a casa (“in classe turistica”).
Il regista americano, che ha sempre giurato di non aver mai scritto niente e neanche di essere mai stato cacciato, ha ricordato, con un certo ironico rancore le sue sedute di sceneggiatura: “I momenti migliori li abbiamo passati osservando Sergio che recitava le sue scene preferite: i rumori del bandito messicano mentre tiene un fiammifero acceso accanto al sedere. Sergio amava produrre sia il suono dell’iniziale emissione d’aria che quello prodotto dall’incontro del fiammifero visibile e del gas invisibile. Dopo averla recitata dettagliatamente, Sergio crollava spossato e triste sulla sedia, scuotendo la testa per il dispiacere di non poter fare altrettanto sullo schermo e al tempo stesso minacciando di farlo.”
In un primo tempo la sceneggiatura era del solo Donati, in pratica Vincenzoni entra quando entra Bogdanovich. Poi lo riscrive un’altra volta Donati.
I due sceneggiatori, comunque, lo trovano troppo lungo e non capiscono perché Leone ha volto metterci la frase iniziale di Mao. Leone non era così politicizzato.
ennio morricone e sergio leone
Forse glielo ha suggerito qualcuno. Forse era solo un modo per non sembrare vecchio. Di certo, allora, è la cosa che notammo di più tutti noi ragazzi che in qualche modo eravamo stati toccati dalla rivolta giovanile e da tutto il cinema rivoluzionario italiano alla Corbucci-Solinas. E notammo anche i terribili zoom così odiati da Bogdnovich, e anche da noi al tempo, per non parlare dei ralenti sui flashback. È probabile che tutto il film fosse una specie di risposta ai Tortilla western del tempo. Ma Leone arriva davvero tardi per inserirsi in quel discorso e senza la freschezza di Sollima e di Corbucci. L’idea del suo film, come disse a Diego Gabutti su “Take One”, è comunque diversa da quella di Quien sabe?. “Avevamo in mente una sorta di commedia sociale, dove un personaggio minuscolo, quasi naif, viene preso dentro gli ingranaggi della storia senza accorgersene e senza nemmeno volerne sapere”.
Donati lo aveva scritto pensandolo per la coppia Eli Wallach e Jason Robards, che lo vedeva come il film della sua vita. Ma si parla anche della coppia Jason Robards e Malcolm McDowell, allora fresco di Arancia meccanica di Stanley Kubrick e di If di Lindsay Anderson. Strana coppia perché avrebbe visto Robards come messicano. Donati ricorda anche che la parte del messicano era stata scritta proprio per Eli Wallach, “ma il film costava molto e i produttori hanno voluto un attore di richiamo come Steiger, un attore che detesto e che non c’entrava niente con la parte”. La cosa più terribile fu che Leone aveva già convinto Eli Wallach quando seppe che la produzione aveva scritturato Rod Steiger. Questo sogno infrante di ripetere il miracolo de Il buono, il brutto, il cattivo con un film tutto costruito su Wallach deve aver parecchio compromesso l’intera operazione.
E l’arrivo di Steiger non convinse nessuno, a cominciare dai ragazzi del tempo, che lo vedevano come un attore un po’ imbolsito venuto in Italia a tromboneggiare in ruoli bigger than life come Napoleone nel Waterloo di Bondarciuk, o come Mussolini in Mussolini: ultimo atto di Carlo Lizzani.
Da parte sua, Rod Steiger ricordava a Tessari, nel suo documentario per la Rai, che “La prima volta che lessi il copione pensai che Sergio fosse molto infantile. Nei suoi film viene fuori proprio la fantasia del bambino”.
Steiger si comporta da vero attore dell’Actor’s, vede il film come rivincita internazionale, ingaggia una messicana per imparare la lingua e parla messicano anche fuori dal set. Con Leone non andavano d’accordo, anche se, secondo Vincenzoni, “Steiger faceva del suo meglio per essere un buon personaggio alla Sergio Leone, non un personaggio alla Rod Steiger – lui è Sergio Leone!”.
La scelta di James Coburn, invece, coronava una vecchia passione di Leone, che lo avrebbe voluto fin dai tempi di Per un pugno di dollari. Ma, certo, nel suo ruolo di rivoluzionario irlandese, tutti vedevamo meglio allora Jason Robards o Malcolm McDowell. E Coburn arrivava in qualche modo in ritardo all’incontro col Maestro italiano. Per l’occasione Coburn si prepara bene anche lui, passando cinque settimane in Irlanda per correggere il suo accento. Ha un buon ricordo dell’operazione, come ricordava alla fanzine “Psychotronic”: “Io ancora credo che fosse un buon film. Sergio era un regista selvaggio. Abbiamo girato pellicola buona per tre film. Avremmo potuto fare una versione di sei ore. C’erano tremende scene d’azione. Specialmente quella dove facciamo scoppiare il ponte.”
Il problema nasce quando i due attori, che allora erano due star, scoprono che non sarà Leone il regista, ma il suo aiuto Giancarlo Santi. Forse non avrebbero fatto tante storie di fronte a Bogdanovich, ma pensare a Leone e ritrovarsi con il suo aiuto non deve essere stato un bel regalo. In realtà Santi sapeva benissimo come sarebbe andata a finire e si è adattato alle volontà di Leone, dice “per compiacenza, Per non mandarlo affanculo definitivamente, come poi è accaduto”. In pratica, si trattò se non di un equivoco, certo di una mossa azzardata che tutti sapevano che non poteva riuscire. “Quando ha deciso di dare la sola ai suoi produttori, non disse ai due attori protagonista che sarei stato io il regista. Però ebbi il mio momento di gloria, perché Variety scrissi che io sarei stato il regista.”
Sergio Donati ricorda che Santi fu regista per un giorno solo. “Sergio aveva spiegato a Rod Steiger che lui sarebbe stato dietro a Santi ogni secondo e quindi era come se il film lo dirigesse lui in persona. Steiger annuì e disse che l'indomani avrebbe mandato sul set, al suo posto, suo cugino. E che Leone non si preoccupasse perché sarebbe stato come se il film lo interpretasse lui. Fu così che Sergio Leone si decise a dirigere Giù la testa, e non credo che se ne sia pentito, alla fine.” Va detto che anche la United Arrtists, che aveva in mano la produzione e la distribuzione internazionale del film, lo obbligò a dirigerlo in prima persona. Santi rompe clamorosamente con Leone. “Ho contestato Leone con una frase di Eliot: in un mondo di fuggitivi chi prende la via opposta può sembrare che scappi.” E se ne va.
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