FIASCHI DI SUCCESSO – CORREVA L’ANNO 1967 E BOLOGNA MISE INSIEME 4 MITI PER UNA “CARMEN”: ARBASINO, GIOSETTA FIORONI, VITTORIO GREGOTTI E ROLAND BARTHES - DAL POP AL FLOP IL PASSO FU BREVE

Il ricongiungersi di due modernità: il video di oggi e quella messa in scena tumultuosa della Carmen con toreri Superman e sigaraie abbigliate con palline da ping pong - Dietro le quinte, come suggeritore, Roland Barthes, ignorato da tutti perché non di moda ma consolato dalla cucina bolognese…

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Stefano Di Michele per “il Foglio

 

roland barthes roland barthes

Madame Sosostris, “famous clairvoyante”, dietro le quinte del teatrino inforca i grandi occhiali leopardati, accarezza con la mano (un saluto, un ultimo saluto: un addio, perciò) l’uccellino – e c’erano stati altri animali, pure la mano bianca dello scheletro (quella ghermisce, però, non accarezza), marionette, scarabei color turchese e libellule tutte d’oro.

 

“Con un infernale mazzo di carte”, il suo, da chiromante di chiara fama sa come tutto va: ché carte, appunto, distribuisce – l’annegato, il Marinaio Fenicio, la Belladonna, la Ruota, come il mercante orbo o la Donna delle Rocce: venghino, signori, venghino a sentire la sorte! Esce di scena, Madame Sosostris – usciamo di scena. Usciamo dall’opera d’arte. Non tela immobile. Non lucida ceramica. Nove appassionanti minuti. Clic. Si esce. Clic. Si può di nuovo rientrare. Clic. Si ricomincia.

 

roland barthes roland barthes

E dove si prendeva congedo con “La terra desolata” di Eliot e la sua veggente – “Is known to be the wisest woman in Europe”, la più saggia, la più saccente tra tutte – si ricomincia con “Il Ramo d’Oro” di James G. Frazer: “Destino” e “Love”, le prime due parti della trilogia (tre minuti per parte, che si possono mutare in trenta o trecento, novanta o novecento, a piacimento), e qui nulla manca, precipitando nel Bosco Sacro: Re-Maghi e Dèi Morituri, perfidi Sacerdoti, il Re del Bosco, le Aiutanti Fate e il tempio di Diana Nemorensis…

 

“Si parla delle origini dell’umanità, di religioni, di tradizioni popolari… Ma nell’insieme la narrazione, gli accadimenti, i personaggi, sono trattati nel segno della magia e dell’incantesimo…” – così dice Giosetta Fioroni di questa ultima opera sua. Che non è un quadro, stavolta. Neppure quelle ceramiche di luci che prendono forma – di cane o di albero o di vestito – presso la rinomatissima Bottega Gatti di Faenza. Né legni colorati che ardono e palpitano.

 

VITTORIO GREGOTTI VITTORIO GREGOTTI

E’ un video di mille cose – dall’innominabile talismano del Ramo d’Oro a Madame Sosostris (dalla Fioroni stessa interpretata) che le carte estreme consegna al destino. Il Magico e l’Inaspettato – cullati dalla musica, “che potremmo definire romantico-siderale”, di Franco Piersanti. E dunque c’entra l’arte – ovviamente: in questa espressione, dice Giosetta, “il massimo del contemporaneo”. Poi dei vestiti, che a primavera passata sfilavano su certe passerelle di Parigi. Prêt-àporter, Madame.

 

E poi ancora dell’arte – bozzetti di una fenomenale e indimenticabile “Carmen” andata in scena, tra fischi e contestazioni, applausi scarsi e mirati, a Bologna. Nel lontano 1967 – appena un anno, ma già molto oltre il Sessantotto che scalpita alle porte. Regia: Alberto Arbasino. Scene: Vittorio Gregotti. Costumi: Giosetta Fioroni. Dietro le quinte (drammaturgo, diciamo): Roland Barthes, “come suggeritore, per una settimana a Bologna, ignorato da tutti perché non di moda”.

 

Vittorio Gregotti Vittorio Gregotti

Il ricongiungersi, in fondo, di due modernità: il video di oggi (passando per certi di ieri, anche dell’altro ieri, tra gli Ottanta e i Sessanta) e quella messa(in)scena tumultuosa di quasi mezzo secolo fa, tra fine gennaio e i primi di febbraio – Escamillo Toreador vestito da Superman sprofondato verso il cielo, sopra una scala d’argento, e Carmen ammanettata per ingiusta causa, temeraria e un po’ mignottesca (“a modo suo tentava audacie alla Artaud sopra Don José affondato fra cuscini d’argento entro gradoni da pre-discoteca”, la specifica di Arbasino), ma pure da palline di ping-pong e reti metalliche – oltre che “paillettes grandi come una frittata per 10 persone”, così si scrisse (Anna Revendi, storica dell’arte, lo scrisse).

 

Oggi, più barbaricamente si direbbe: come piatti da happy hour. Bisogna fare un po’ come i salmoni, in questa storia: risalire la corrente al contrario, così da ritrovare l’origine (l’originale, si potrebbe dire). E c’è di mezzo oltre a una famosa artista, appunto Giosetta Fioroni, una grande casa di moda, Valentino.

 

“Un felice matrimonio tra arte e moda – racconta il pittore (non la pittrice, ché quando erano gli anni Cinquanta, “le pittrici erano considerate quasi prostitute”) – I costumi della ‘Carmen’ di Bizet che avevo ideato nel 1967, per l’edizione bolognese, con la regia di Arbasino, sono stati riportati nell’attualità da Maria Grazia e Pierpaolo, Chiuri e Piccioli, che con rapido e brillante intuito, e vere possibilità interpretative, hanno guardato al passato per tradurre segni e immagini di allora in una vitale contemporaneità”.

macro07 carla accardi claudio abate macro07 carla accardi claudio abate

 

I bozzetti di quei costumi, insieme a stelle e cuori e alberi del mondo onirico di Giosetta – “che cammina con passo leggero”, scriveva il suo compagno di vita Goffredo Parise – fatti rinascere e spediti in apposita sfilata (bolle, linee, tagli, e i pois, i pois soprattutto: non zebre, ma gonne e pantaloni e paltò, il trionfo della Pop Art italica): su tacchi, su corpi levigati, dentro luci adeguate.

 

 

I due “creativi” (la parola è quella che è, eccessiva e imprecisa: ma quella è), Chiuri & Piccioli, hanno spiegato: “Carol Rama, Carla Accardi e Giosetta Fioroni sono figure emblematiche della corrente artistica italiana degli anni Sessanta. Artiste che hanno trattato temi profondamente femminili, che descrivono emozioni del fantastico, mantenendo un legame con l’infanzia e i sentimenti”.

 

Un rapporto che porterà fino al video d’arte (che adesso sul sito della Maison si mostra, si frantuma, si ricompone) commissionato alla Fioroni – che Frazer illumina ed Eliot, prestando alla sorte Madame Sosostris, conclude. E come per un’inchiesta, un “cold case” che tra scena e proscenio, passerella e video art, si dipana per decenni, indietro bisogna tornare: al 1967, sul palco del Comunale di Bologna.

 

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“Come diceva Palazzeschi – sogghignò anni dopo Arbasino –, adesso mi sembra di raccontare, da superstite, un futurismo più antico dell’impero romano”. Dunque, 1967. Dunque, non ancora 1968. Dunque, il mondo non esisteva ancora. “Non c’era ancora stato Ronconi, né il Maggio Francese, è vero (solo quello Fiorentino)”. Ma per i formalisti russi e lo strutturalismo francese “c’era una viva cotta intellettuale in corso, fin troppo giusta”.

 

E così, tra Viktor Sklovskij e Roland Barthes (eccolo, rieccolo, tra poco riappare), nella già sazia e molto antifascista e piuttosto conservatrice Bologna si decise temerariamente di azzardare. Su il sipario. Dirige: Pierre Dervaux. Nelle foto in bianco e nero di quei giorni, Arbasino – di giovanile beltà, si sa; già di consacrata intelligenza, pure questo si sa; anzi, “incantevole per talento e bellezza” (Anna Revendi), che di suo peraltro si era già sperimentato con una “Traviata” al Cairo – in bianca camiciola dirige, megafono d’antan tra le mani e aria da pischello dissacratore.

 

ALBERTO ARBASINO ALBERTO ARBASINO

Vittorio Gregotti, di calvizie già ornato ma di patriarcale barba ancora orbo, affianca ora il regista ora Giosetta Fioroni, sadicamente pronta a sostituire le trine con le palline, a far trionfare i “pois”, a varie e variopinte metrature: piccoli, grandi, grandissimi… (Per qualcuno, a lavoro del terzetto finito, Barthes sempre nell’ombra, fu quella loro “Carmen” scenica peggio messa dell’inquieta sigaraia canterina a seguito della mortale coltellata di Don José, “libera è nata e libera morirà!”, zac!).

 

In certe altre foto, la destrutturazione/ricostruzione appare già compiuta: sotto giganteschi cubi bianchi e luminosi – il villaggio mediterraneo a visione di Gregotti – si affollano le sigaraie di ogni orpello spogliate e consegnate alla modernità, in certi accostamenti arancione/ rosa/nero (parecchie di abbondante taglio, come era d’uso: così il bicipite, di grosso dirigibile evocativo, qua e là si mostra).

 

“Erano disperate, sperdute. Quasi nessuna aveva capacità attoriali: si andava sul proscenio, si aprivano le braccia e si cantava. Faticavano, poverette, a muoversi con quei vestiti. Signora, signora, perché?, imploravano…”, rievoca la Fioroni. Pure il povero Escamillo mutato in Superman (ché certo era da escludere il Super- toreador) – senza l’oro e il nero e lo sbrilluccichìo solito della divisa da gladiatore d’arena – implorava, in ginocchio quasi cadde, il regista Arbasino, invero spietato, perché lo lasciasse toreare in pace sul proscenio, “Toreador, attento! Toreador , toreador!” – come d’uso, adesso pareva come d’abuso – invece di spedirlo lassù in cima alla scala d’argento, in alto, “dottore, non posso cantare lassù, dottore, non posso!”.

raffaele manica e alberto arbasino raffaele manica e alberto arbasino

 

Salì, senza scampo salì, fu peggio che fronteggiare dieci tori insieme, si perdeva il suono, così che manco un vitellino, altro che la furiosa bestia, si sarebbe fatto impressionare. Fu piuttosto lo stesso teatro che si mutò, quella sera, in arena. Per gli habitué, quella forte e provocatoria e intelligente messa in scena, appunto fu gran provazione e massima pena. Ma lasciamo la musica, ma lasciamo le voci. I costumi interessano, perché i costumi ci riconducono a oggi.

 

Se c’è un’opera dove di tutto c’è sovrabbondanza, ogni infausto sovrappiù, è certo la “Carmen”: lì nulla è precluso, per la gioia del medio tinello, per cuori romanticamente divisi (a Don José, a Escamillo, el corazòn va in tumulto e si spezza), per cuscini da lacrime bagnati, lacrime sgorganti copiose, si capisce, sotto la dovuta nera mantiglia di pizzo. Via “i ciaffi e le frappe da veglione turistico”, decretò il regista. “Al posto delle scene dipinte e di costumi da carnevale al circolo delle zie dei commendatori, si fornirono segni, emblemi, simboli, icone, sintesi, carichi però di altra spettacolarità e colori diversi…”.

 

alberto arbasino (6) alberto arbasino (6)

Ventitré anni dopo, 1990, sul catalogo di una mostra presso la romana Galleria dell’Oca di Luisa Laureati, allestita proprio per rievocare l’epica impresa, le tante sottrazioni rievocherà a sua volta Arbasino: “Ho eliminato ogni possibilità di quadretti del genere: sono sempre e talmente uguali che chiunque può facilmente immaginarseli, anche senza vederli.

 

Ecco perché non ci sono farandole né ombrellini né ostesse procaci né vecchine che inciampano né bambini non indispensabili, e soprattutto niente bancarelle che si rovesciano. Sarà magari troppo, non so: comunque neanche un venditore ambulante. Non ho nemmeno tentato di riprodurre degli angolini tipici riconoscibili dai cineamatori di Ferragosto”.

 

(Manco, a dirla tutta, un pizzico di antifranchismo che all’epoca andava tanto, che all’epoca si doveva qualunque cosa della Spagna si evocasse, nemmeno un cauto parallelo tra Carmen, per dire, e la Pasionaria Dolores Ibàrruri: stando ancora in vita e disgraziatamente in salute el Caudillo, el Generalissimo, el Francisco Franco, el Toreador funereo della penisola iberica tutta).

 

ALBERTO ARBASINO ALBERTO ARBASINO

Fossero pure, come scrive nel capitolo dedicato alla Fioroni nel suo libro “Ritratti italiani” (Adelphi), “acquarelli folkloristici, dépliantes turistici, cartoline da aeroporto, manifesti di corride, costumi da veglione con gonne gitane e volants”, vade retro!, via!, via! – i “topoi”, piuttosto, parliamo dei “topoi”! Insomma, teletrasportata altrove, quella poveretta della sigaraia: come Topolino senza Topolinia, Paperino senza Paperopoli, Amleto senza teschio né castello.

 

E la matita e i colori e le forbici di Giosetta Fioroni, insieme alle scenografie di Gregotti (“di un nightclub da perdizione dell’anima”, annotò il regista), materializzano questo Altrove dove Carmen si sposta – e dove molti degli interpreti sulla scena, e moltissimi spettatori in platea, casomai si sperdono.

 

ARBASINO ARBASINO

“Lo spettacolo ebbe assai contrastate accoglienze dovute alla regia di Arbasino e non alla direzione musicale. Ossia applausi a scena aperta per l’iniziale apparizione della scenografia e dei costumi, e urla e fischi per l’andamento della dinamica e le ‘scelte visive’ della regia. In parte dovuti anche ai cantanti, buoni professionisti, ma preoccupati e tremanti dalle richieste innovative (per loro forse abnormi!) del regista. Dunque altamente spaesati nei movimenti scenici, nelle scenografie e nei costumi, nei quali non si riconoscevano!” (Anna Revendi).

 

I costumi, appunto. Com’è che andò? Dice Giosetta, ancora con gran divertimento, che si trattò di “una Carmen lievemente inaudita” (lievemente – a eufemismo qui s’intende), “i costumi che immaginai erano a base di gomma piuma, polistirolo, palline da ping-pong, rasi, rasatelli, plastica e stoffe varie… e paillettes con diametro di dieci centimetri.

 

Forme e colori alludevano con simbologie semplificate ai temi della pittura contemporanea. I pois nelle multiversioni pop e i segni, le strisce, i gonfiori, gli ornamenti e i trucchi… in una costante stilizzazione”. Così che, “i costumi scatenarono vive disapprovazioni in vasta parte del pubblico”.

 

ALBERTO ARBASINO ALBERTO ARBASINO

E sì che arrivarono: a precipizio giunsero, fischi e urla – pure l’allarme massimo, “i capelloni! i capelloni!”, quando sulla scena si appalesano il Dancairo e il Remendado con parrucche bionde, perfette per il “Lohengrin”, non fosse il biondo di Spagna biondo più che altro da ossigenati. Il tumulto! Il tumulto! Fuggito dall’arena, il toro si aggira tra la platea e sul loggione. E là in platea siede un altro amico di Giosetta e di Arbasino – Giangiacomo Feltrinelli.

 

S’alza in piedi, l’irrequieto militante editore, e rivolto al loggione che protesta, a sua volta urla: “Fascisti! Fascisti!” – e quelli figurarsi, fascisti a noi?, decisi alla furiosa discesa per toreare con l’editore, e piantare “banderillas de fuego”, de fuego di ardente antifascismo, sul groppone dell’insultante laggiù in platea. “Molti volevano venire giù a menarlo”. Un parapiglia.

 

Per cinque minuti – cinque minuti a scena aperta sono un’eternità – sul palco toreri impietriti, sigaraie impietrite, sbirri impietriti. “Alberto era bianco come una panna montata, pallidissimo”, rammenta Giosetta. “Sommerso dai fischi per avere evitato i falpalà, ebbi la sensazione di avere avuto a che fare con coglioni. E non ci pensai più, lo rievoco oggi perché me lo chiedono”, decenni dopo disse il pallido Alberto, a buon colore ripreso – quando appunto glielo chiesero. Tormentatissima la sera, tormentata la mattina. Conferenza stampa degli arditi della messa in scena, proprio nel luogo del crimine (il Comunale).

ARBASINO PROVE CARMEN ARBASINO PROVE CARMEN

 

 “La sala era gremita. Giovani e meno giovani aggressivi in prima fila puntarono contro di noi il dito del rimprovero – racconta la Fioroni –. Molte domande, molti perché. Discutemmo, parlammo, urlammo. Sul finire, con un secco colpo di tosse, Barthes chiese la parola. Si creò un silenzio assoluto. Lentamente, con tono sommesso Barthes ‘raccontò’ gli intenti di Arbasino regista.

 

Espresse una consapevole approvazione per questo fare e ne spiegò le complesse ragioni legate alla struttura poetica dell’opera, a una speciale rilettura”. Si fece silenzio, dunque – e si rimase in silenzio: da Barthes furono i contestatori appagati. Con Giosetta e Arbasino, il semiologo francese abitava in quei giorni d’azzardo all’Hotel Baglioni – tè e chiacchiere e consolanti aperitivi.

 

“Era silenzioso e prendeva continui appunti in un calepino – ancora Giosetta –. Era anche molto compiaciuto della cucina bolognese. Ricordo che il suo volto allungato, pallido, lievemente enfio, si coloriva dopo mangiato e l’occhio profondo e intenso si accendeva di languore a mano a mano che arrivavano le pietanze”. E satollo di bollito e dotto in analisi, così Barthes azzittì i protestatari – “l’indignazione furibonda del pubblico”, arbasiniana constatazione, per il suo regale rifiuto di una “regìa tipo modinette, che moltiplica le trovatine pittoriche”.

 

Nulla “Carmen” fauve – fischiate ma non l’avrete! Tutt’altra messa in scena, fece l’Arbasino regista, di ciò che invece aveva visto l’Arbasino spettatore: quella “stupenda” di Karajan alla Scala, scrisse, e quella “deliziosa” di Zeffirelli al “Carlo Felice” – e “stupenda” e “deliziosa” hanno di sicuro accenti diversi – ove “le sigaraie sciamavano come abat-jours della Belle Epoque, e nella taverna Danilo Donati faceva le controscene a Giulietta Simionato che si dava le pacche sul sedere su un tavolone”.

GIOSETTA FIORONI MADAME SOSOSTRIS GIOSETTA FIORONI MADAME SOSOSTRIS

 

Ecco. Tutt’altro, tutt’altra cosa, cosa inattesa – “Stilizzazione Emblematica”, a volerla dire compiutamente, a saperne cavare con dottrina il meglio. Quella “Carmen” andata in scena il 31 gennaio – così in anticipo da scavalcare anche il Sessantotto che compostamente ancora in fila aspettava il suo turno – riaprì il sipario per le due repliche previste del 2 e 5 febbraio, e poi si giacque, diciamo.

 

E a parte i “coglioni” arbasianamente rievocati, e i cantanti, inopinatamente squamati sotto padelloni di paillettes, fu in realtà esperienza felice. “Ricordo felice” (Fioroni). “Lo rifarei? Certo che sì” (Gregotti). Passano i decenni, si scavalca il millennio – chissà quante Carmen si sono in seguito agitate, tra toreri e militari, tra scialli e nacchere, mille cosce sudate/sfregiate di sigaraie danzanti.

 

Poi gli occhi curiosi di Chiuri & Piccioli sugli antichi bozzetti di vesti cadono, sulle foto in bianco e nero, sull’ingombro di pois, “delirante ripetizione”, di linee e di palle di ping-pong che sembrava impedire e invece liberava – e a questi si ispirano per l’ultima collezione (oltre che al resto del mondo onirico dell’artista): e tornano così a vivere, dopo il tempestoso debutto barthesianamente chetato. Abiti, si dirà. Chissà se solo abiti, però.

Rutelli e Giosetta Fioroni Rutelli e Giosetta Fioroni

 

“Intreccio assai raro tra l’arte e la moda”, dice la Fioroni. Si rianimano i pois, le linee, le paillettes – smentita a una fosca previsione, questa addirittura di ben oltre mezzo secolo fa: “All’inizio del mio lavoro un collezionista voleva comprarmi un quadro, ma quando ha visto che la firma era di una donna non lo ha comprato più. Ha detto che dopo mi sarei sposata, avrei smesso di lavorare e il quadro avrebbe perso valore”. E dalle sigaraie alle Madame, dal bozzetto alla sartoria, dall’arena alla Maison, a Paris, toujours Paris!, dalla provocazione al trapasso alla rinascita – così la storia andò, avanti tornando sui suoi passi.

 

Giosetta Fioroni Giosetta Fioroni

Fino al video d’arte finale, dentro il teatrone ligneo dello studio di Giosetta – “la metafisica bellezza di un Unicum- Visivo”, il favolistico, il fantastico, l’Altrove. Già molti anni fa la Fioroni aveva girato alcuni video d’arte, già in quel fatidico 1967 di Carmen all’avanguardia e di toreri sospirosi come appesi in alto, aveva giocato con brevissimi film in 16 mm. e Super 8 – e adesso tutto si incrocia con quel freddo fatidico gennaio bolognese.

 

Se a Carmen (atto III) le carte pessima fine spalancano davanti agli occhi – forse che Madame Sosostris non ha i tarocchi in mano per determinare l’altrui destino, con effetto che riavvolge e ribalta? E se la torbida Habanera di Carmen strugge l’ormone maschile mentre canta, come ognuno sa, che “l’amour est un oiseau rebelle” – forse che Madama Sosostris non prende congedo, nel video d’arte, con una lunga carezza al pennuto ora quieto, sazio d’amor ribelle, sempre qualcosa che si riavvolge e si muta?

 

Dai fischi agli applausi – ma forse furono, sulla distanza, quei fischi più generosi di molti più facili applausi: ché poi, bastava una frangia in più e qualche pois in meno. Resta un rimpianto – uno solo: che quel che disse Barthes agli scalmanati il giorno dopo sia andato perso per sempre. “Peccato non rimanga il testo o la registrazione”, il lamento ultimo della Fioroni. Prosciugato.

 

Ma i tortellini per l’illustre coltissimo maître à penser erano ancora, a contestazione sedata, caldi (si spera). Dal palco il coro delle sigaraie si alza: “Il fumo seguiamo con gli occhi / il fumo / che sale profumato / verso il cielo” – tanto dal piatto (fumante), si alza (il fumo, non il coro), quanto dal sigaro (acceso).

 

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