“NON CHIEDETEMI SE SONO PRO O CONTRO UN REGIME. SONO UN ROMANZIERE PUNTO E BASTA” – L’AVVENTURA UMANA E LETTERARIA DI MILAN KUNDERA TRA LA FUGA DALLA NOTORIETÀ E L'ABILITÀ NEL CONQUISTARLA. “METÀ DELLA VITA DI UNO SCRITTORE È STRATEGIA” - IN ITALIA LO SCRITTORE FU LANCIATO DA DAGO IN “QUELLI DELLA NOTTE” DI ARBORE –“QUANDO FACEVO IL TORMENTONE DI KUNDERA, NON AVEVO NEMMENO SFIORATO IL LIBRO”

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Estratto dell'articolo di Giuseppe Scaraffia per “il Sole 24 Ore”

 

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Solo la morte sembra avere spezzato il cerchio di silenzio in cui Milan Kundera, morto l’11, all’età di 94 anni, era riuscito a rinchiudersi al culmine del successo. Una scelta strategica? Con i pochi che continuava a vedere si rifiutava di parlare dei suoi libri con un gesto che sembrava scacciare una mosca fastidiosa.

 

Era arrivato in Francia in macchina con la moglie Vera nel 1975, a 46 anni. Figlio del direttore dell’Accademia Musicale di Brno, aveva a lungo esitato tra la letteratura e la musica. Il primo passo era stata la poesia. Dopo la laurea aveva insegnato letterature comparate a Praga. Con il partito comunista, allora al potere, aveva avuto un rapporto controverso: prima si era iscritto, poi ne era stato espulso per avere manifestato il suo dissenso in una lettera a un amico.

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Riammesso nel 1956, ne era stato definitivamente cacciato per la sua adesione alla Primavera di Praga. La coppia aveva vissuto prima a Rennes e poi a Parigi. Pochi tra i frequentatori di casa Gallimard si accorgevano di quel giovanotto alto, in jeans e golf, che si muoveva con aria imbarazzata finché non iniziava a parlare e un sorriso complice gli illuminava il viso.

 

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Nel 1979, l’uscita del Libro del riso e dell’oblio gli aveva fatto perdere la nazionalità cecoslovacca, ma anche dopo la caduta del regime gli intellettuali del suo Paese avrebbero considerato con invidia e diffidenza quel compatriota carico di premi, tradotto in ottanta lingue e che scelse il francese come sua. Forse proprio la loro tacita ostilità gli aveva impedito di avere il premio Nobel.

 

L’avventura umana di Kundera è imperniata sul contrasto tra la sua fuga dalla notorietà e la sua abilità nel conquistarla. «Metà della vita di uno scrittore è strategia», aveva detto a un amico. Forse si era chiesto, come un suo personaggio: «Come vivere in un mondo con cui non si è d’accordo?».

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(...)

 

Ma, per la maggior parte dei suoi lettori, Kundera viene identificato con il suo bestseller, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), un intreccio di amori ambientato nella Praga del 1968. In Italia era stato lanciato da Roberto D’Agostino, nel memorabile «Quelli della notte» di Arbore: «Devo confessarlo: quando facevo il tormentone di Kundera, non avevo nemmeno sfiorato il libro». Diventò un caso culturale.

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L’ostilità della madrepatria era riaffiorata nel 2008 era affiorato negli archivi della polizia, ormai accessibili ai ricercatori, un documento secondo il quale Kundera avrebbe denunciato, nel 1950, accusandolo di spionaggio un ventenne, per questo condannato a vent’anni di lavori forzati.

 

Malgrado le incongruenze e le vistose inesattezze, la notizia aveva fatto scalpore e solo l’intervento di esponenti culturali di rilievo aveva sottratto Kundera a un possibile linciaggio mediatico, rafforzando la sua ostilità per i giornali e la politica. «Non chiedetemi se sono pro o contro un regime di destra o di sinistra, io sono un romanziere punto e basta». Intanto aveva cominciato a scrivere direttamente in francese e continuava la sua vita discreta a Saint-Germain, dimostrando che, se si vuole, ci si può sottrarre alla celebrità anche nel centro intellettuale di una grande capitale.

 

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Dieci romanzi, vari saggi e racconti testimoniano l’efficacia della sua fuga dal mondo. Ma, quando era stato ammesso nella prestigiosa collana della Pléiade, ne aveva escluso alcuni, secondo lui poco significativi. In un tentativo di superare la rottura con la sua nazione natale, aveva lasciato nel testamento i suoi libri e il suo archivio, tranne le lettere d’amore con Vera, preventivamente distrutte, alla biblioteca di Brno. «Essere coraggiosi nella solitudine, senza testimoni, senza il premio di un consenso, soli davanti a sé stessi, richiede un grande coraggio e una grande forza».

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