Gino Castaldo per “la Repubblica”
Come tutti noi è solo, solo con i suoi tatuaggi fiammeggianti e le sue visioni glitterate, ma è un prigioniero relativamente felice perché immerso in un tunnel di creatività selvaggia e irrefrenabile. Ci appare sullo schermo del computer dalla veranda di un b&b romano dove si è trovato di passaggio al momento dell' editto coronavirus. «Non hai idea che casino», racconta, «ho dovuto ricreare qui tutto quello che mi serviva per lavoro, chitarre, batteria, perché sto lavorando con strumenti veri, quindi mi sono linkato con tutti gli altri. È strano ma affascinante».
La voce di Achille Lauro tornerà a girare nell' aria, da domani, quando uscirà il nuovo singolo intitolato 16 marzo , un titolo che in questo periodo sembra inevitabilmente un segnalibro epocale. Cosa vuol dire? «È il giorno in cui il pezzo è stato fatto, il giorno della lettera, perché di una lettera si tratta. Marzo è il mese in cui finisce il vecchio e comincia il nuovo, anche se di questi tempi i pensieri assumono una diversa forma. Marzo è il mese in cui è successo tutto, e questo ti fa ripensare a tutto, anche all' amore».
La cosa più sorprendente è che sembra un brano "normale", una canzone d' amore, con parole semplici, chiare, sull' abbandono, sui cambiamenti dell' amore e delle persone. È questo il frutto dell' alter-ego Achille Idol Immortale che, se tutto va bene, porterà in scena in autunno?
«È l' upgrade di tutto quello che ho fatto finora, un biglietto da visita per il futuro. Ho seguito una visione precisa: un testo per tutti, per una volta senza fare il maniaco della parola, tipo il Vasco di Siamo soli , una frase che potrebbe dire chiunque, ma detta da lui 16 marzo è un po' così, meno poetica, più diretta, come una verità sentita».
Come tutte le canzoni d' amore può essere letta in molti modi?
«Ma certo, la lettera potrebbe essere indirizzata a me stesso, oppure al mondo che c' è la fuori adesso. È uno stato d' animo, una sensazione che tutti hanno provato o proveranno, mi piace il sound del ritornello. Siamo andati a cercare qualcosa di violento rispetto alle canzoni d' amore. Un po' crazy, come me, finisce in eco, quasi rabbiosa».
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Il pezzo uscirà così da solo, senza un album? Si parlava di un progetto tutto sugli anni Novanta
«Sto lavorando a 40-50 pezzi insieme, ho praticamente tre dischi, non so, deciderò man mano, cambia solo il modo di calendarizzare il tutto, il fatto è che non saprei neanche dare un' etichetta a quello che sto facendo, per mesi ho accumulato un mare di roba, ero in una casa e tutti i giorni facevamo session fino a notte fonda».
Ma ora è diverso con la catastrofe intorno?
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«Stare isolato per me non è del tutto una novità, le mie cose sono sempre nate da lunghi periodi di chiusura di sicuro sta venendo fuori una parte più autentica di me, sono meno influenzato dall' esterno, non ho distrazioni, cerco di ottimizzare al massimo, così quando sarà finita avremo usato al meglio il tempo, e accresciuto noi stessi. Potrebbe essere un consiglio per tutti».
Ha provato a immaginare il momento in cui ci sarà di nuovo un pubblico davanti al quale poter cantare?
«Sì, certo, credo che il pubblico apprezzerà di più cosa vuol dire partecipare, forse per la prima volta si vivrà l' evento, non dovrò dire: spegnete i telefonini».
A proposito di pubblico, com' era pregustare lo scompiglio che ci sarebbe stato alla prima apparizione sanremese? Qual è stato il pensiero subito prima di uscire in scena?
«Io non pregustavo lo scompiglio, ero lo scompiglio ma in quel momento l' unica cosa di cui ero preoccupato, dopo aver pianificato per mesi la prima serata, era togliermi il vestito nel momento esatto.
Era fondamentale, anche perché avevo un ricordo tremendo: al primo concerto del primo tour importante, avevo preparato un' uscita a sopresa e sono entrato due minuti prima del dovuto, un trauma, ecco era quello il punto, a Sanremo in quel momento la cosa più importante era fare esattamente quello che avevo pensato, era già tutto nella mia mente, ma se sbagliavo il momento».
E poi, passata la prima sera del nudo?
«La più strana è stata la sera di Bowie, è stato onirico, sentivo anche su di me una strana vibrazione, per la serietà che dovevo mantenere, ero sospeso sul filo, tra un paradosso e l' ultraterreno. Tutto era partito da un' idea: portiamo un concerto dentro Sanremo, sembrava un vaneggiamento, in quattro minuti ci deve essere tutto: il costume, il punk, il momento intimo dell' inizio, il bacio, io che faccio la corte a Doms (il socio sul palco, ndr ), quello che succede nei nostri live. Ci abbiamo lavorato per mesi, per trovare i partner giusti, per sistemare tutti i dettagli».
Ora che Achille Lauro e il suo alter ego viaggiano su fili di audacia impensabile fino a qualche anno fa, ci ripensa ai suoi luoghi di origine, al quartiere romano di Montesacro?
«Provo un sentimento di nostalgia. Non poter vivere i luoghi "normali" è la faccia meno bella del successo. Non mi lamento, intendiamoci, so di essere un uomo fortunato, sono fermamente credente nel destino e non direi mai di voler tornare indietro, però vorrei poter stare nei i luoghi in cui sono cresciuto. Mi mancano le mie strade».
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