Quirino Conti per Dagospia
Tra i pochi misteri rimasti insoluti dopo la grande guerra sferrata agli enigmi dai televisivi divulgatori di “Sapienza & Verità” – altro che Tommaso l’Aquinate, come pure il baffutissimo Nietzsche –, uno appare più nebuloso degli altri. A cosa servono, rispettivamente, le costosissime rappresentazioni dell’opera lirica e l’impennacchiato ritorno dell’Alta Moda?
Entrambe con un pubblico millesimato, se non di fatto inesistente; ambedue giustificate per schiere di artigiani-artisti specializzati e per mestieri preziosi e irrinunciabili; l’una e l’altra, dopo un oblio persino irridente, tornate al proprio sperpero, immaginandosi per ciascuna una necessità estetica imprescindibile – pressoché morale e di salute pubblica, si direbbe.
Ora, passi per la musica, in sé un bene assoluto e un autentico lavacro intellettuale; motivo per cui, quello di orchestre, cantanti e maestranze artistiche sarebbe persino un giustificato, auspicabile costo sociale.
Più difficile da immaginare è invece il peso economico di spettacoli transfughi dove può avvenire di tutto – dal porno al variété –, con ambientazioni oltraggiose e tripli cast a disposizione di sfasamenti, spesso irragionevoli.
Che se poi, per caso, tutto in palcoscenico avviene come da libretto, può persino scoppiare uno scandalo con ripercussioni indignate da Querelle des Anciens et des Modernes. Quanto al pubblico, è quello di sempre: a ogni stagione più smunto, muto e obbligatoriamente plaudente, ignaro di aver già pagato di tasca propria (biglietto a parte) un’Aida punk in birreria o un Don Giovanni texano stremato dalla sifilide.
Per l’Alta Moda è, se possibile, addirittura peggio. Nomi storicamente imprescindibili e vanto della nazione, traslati a suon di milioni in pasticci che nessuno mai potrà indossare.
“Ma che importa,” si risponde, subito indignati e competentissimi, “basta il concetto, come segno di modernità.” E poi, quei laboratori di mani fatate: “Un’abilità che si deve perpetuare”. Come per i pennacchi e le frange per i tendaggi, o la mummificazione hollywoodiana dei truccatissimi trapassati.
Comunque prodotti da presentare, per sostegno, sempre in luoghi mitici con un bordo pedana raccogliticcio. E poi code su code, strascichi, ricami, volumi e follie. E poi ancora, decine di artisti – se lo dicono da soli – ad addizionare pepe a un gusto già insopportabile. Come se bastasse “aggiungere” al già saturo per tramortire una clientela che peraltro, grazie a Dio, non c’è più.
Ma a Parigi, quando è uscito per gli applausi, Giorgio Armani sembrava aver appena dismesso la toga di un sapiente, di un accademico; e gli strumenti di un filosofo. Comunque, con la dignità di chi non rinuncerà mai a rispettare e amare appassionatamente la propria vocazione.
Diversa invece l’atmosfera da Dior (a Parigi) e Valentino (a Venezia), nella dubbia conferma commerciale per le monastiche linee della prima maison e tra le sbandierate teofanie estatiche della seconda; ma pure tra i velenosi sibili sempre meno sottotraccia di coloro che, fin dagli inizi, avevano disapprovato l’attribuzione delle due maison agli attuali direttori creativi.
Pierpaolo Piccioli - Valentino
Entrambi formatisi al frequentatissimo e fertile Kindergarten Fendi, ancora insieme a sfornare borsette e borselli in casa Valentino, quindi (chissà perché) a sostituire in diarchia il Beato Fondatore quando fu costretto a lasciar cadere lo scettro, e infine felicemente separati allorché lei (Maria Grazia Chiuri) salì da badessa le auree scalinate di casa Dior; mentre l’altro (Pier Paolo Piccioli) rimaneva l’unico estensore del ridondante pensiero stilistico di piazza Mignanelli.
“Ogni volta è come se stilista e collezione fossero stati prescelti con un’estrazione a sorte, mediante il solito infante bendato nei panni della dea Fortuna,” si poteva leggere fino a qualche giorno fa in un post non certo amico, “due massacratori dello Stile!” Neanche fossero i condannati Rosa e Olindo da Erba.
giorgio armani Grazia Ciuri - Dior