"LA FEDORA DI MARTONE È UNA MILFONA RUSSA ARRICCHITA E UN PO’ VOLGARE" - MATTIOLI: “ALLA SCALA LA NUOVA VERSIONE DELL’OPERA DI GIORDANO CON IL GRAN RITORNO DI ALAGNA DOPO IL FAMIGERATO AFFAIRE-AIDA DEL 2006. A 59 ANNI, LA SUA VOCE NON È PIÙ FRESCHISSIMA MA ANCORA SALDA, PIENA E VOLUMINOSA. CERTO, ALAGNA CANTA FORTE, SENZA SFUMATURE. L’IDEA È INTRIGANTE, MA LO SPETTACOLO FUNZIONA MENO PERCHÉ…”

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Alberto Mattioli per lastampa.it

 

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Ogni quarto di secolo, più o meno, alla Scala si fa una nuova produzione di Fedora di Giordano. Così nel 1932 (l’opera aveva debuttato nel 1898, sempre a Milano, ma al Lirico), ‘48, ‘56 con la Callas e ‘93 con la Freni. Non è molto, ma nemmeno poco, segno che quest’opera, di cui è sempre stato di buon gusto dire che è di cattivo gusto, mantiene una certa vitalità. Tratta da un drammone di Sardou, mette in scena una navigata principessa russa, Fedora Romazov, cui i soliti nichilisti uccidono l’amante, che ovviamente si chiama Vladimiro.

 

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Lei individua il colpevole nel conte Loris e giura vendetta. L’odio di trasforma in amore quando lei scopre che Loris ha sì ucciso Vladimiro, ma perché era l’amante della moglie Wanda, e dunque anche Fedora era tradita. Troppo tardi: le denunce fatali sono già arrivate a Pietroburgo e sono già costate la vita al fratello di Loris, arrestato per complicità, chiuso nelle segrete della fortezza sulla Neva e qui annegato per una piena del fiume e alla vecchia madre dei due fratelli, morta di crepacuore.

 

A Fedora non resta che suicidarsi con il veleno. Il tutto sullo sfondo di una belle époque tipica, notti d’inverno a Pietroburgo e feste nel palazzo parigino della principessa, mentre la resa dei conti si volge in uno chalet svizzero molto pittoresco: con l’aria di montagna la tragedia ci guadagna, verrebbe da dire. Peraltro il tenore, come tutti questi machi veristi, parla continuamente di mammà, mentre Fedora per sedurlo lo rassicura: “Un’altra madre tra le mie braccia avrai...” (da Vienna qualcuno se la ride sotto la barba).

 

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Insomma, il libretto di Arturo Colautti va davvero letto per farsi quattro sane risate. Ma, per quel che riguarda la musica, è semmai il Giordano che non t’aspetti, un’opera dove, alla fine, di quelle belle sferzate melodiche “veriste” con il cuore in mano ai violinisti non c’è che la celebre romanza di Loris, “Amor ti vieta”, su cui è costruito anche l’immancabile Intermezzo. Per il resto, si oscilla fra numeri operettistici (“La donna russa è femmina due volte”, l’aria del baritono oggi politicamente scorrettissima), accurate descrizioni d’ambiente, anticipazioni cinematografiche e trovate di drammaturgia musicale niente male: il primo atto costruito come un vero e proprio “giallo” o, nel secondo, il colloquio fra Fedora e Loris, tutto un declamato mentre sullo sfondo il pianista della festa suona un simil Chopin zuccheroso.

 

Benché l’estetica prevalente fra chi va all’opera in Italia e purtroppo anche fra chi ne scrive sia quella che è bello quel che piaceva alla povera zia e alla cara nonna e solo quello, è chiaro che un materiale teatrale del genere debba oggi essere interpretato, a meno di non voler franare sulle figurine Liebig e dunque fare dell’ironia involontaria.

FEDORA GIORDANO FEDORA GIORDANO

 

La nuova produzione della Scala è stata affidata a Mario Martone, che con il “verismo” ha dimostrato di saperci fare, vertici un Cav & Pag notevolissimo e una Cena delle beffe che induceva quasi a prendere sul serio Sem Benelli.

 

Qui colloca l’azione ai tempi nostri. Il primo atto è bellissimo, con la giusta atmosfera da cold case (sembra sempre di veder spuntare la Leosini) e una Fedora molto milfona russa arricchita e un po’ volgare, che si sdraia subito sul detto del de cujus perché, si capisce, con il defunto Vladimiro non passava certo le notti a leggere Dostoevskij.

 

Bellissimo del paro è il finale, giustamente irrealistico. In mezzo, un secondo un terzo atto ispirati a Magritte, con la sempre bravissima Margherita Palli che ricostruisce sulla scena un paio dei suoi quadri più celebri. Come dire: l’iperrealismo di Giordano diventa surrealismo.

 

L’idea è intrigante, ma lo spettacolo funziona meno perché la moltiplicazione delle controscene e i personaggi raccontati (Wanda, Vladimiro, la povera maman) che diventano reali, finiscono per dare allo spettatore l’impressione che il regista voglia riempire dei vuoti drammaturgici, e insomma che sia il primo a non credere fino in fondo nell’opera sia proprio lui.

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Ci crede, invece, Marco Armiliato sul podio, ma “alla moderna”, senza esagerare con l’enfasi e il turgore, scegliendo anzi una narrazione sì appassionata ma controllata, lucida, perfino rigorosa. Paradossale, per un direttore sempre etichettato in primis come eccellente accompagnatore, che i momenti in cui Giordano si regala qualche audacia armonica o soluzione “à la page” (ma c’era davvero ancora qualcuno, nel 1898, che non sapesse strumentare?) spicchino con grande e novecentesca evidenza.

 

Della protagonista, Sonya Yoncheva, non si capisce perché canti Fedora, visto che la tessitura insiste proprio dove la sua voce è più debole, nel registro grave. Ma poi della primadonna fin-de-siècle Yoncheva non ha né il declamato incisivo né il carisma scenico. Per carità: non vogliamo certo una Fedora attaccata “full time” alle tende, ma un po’ più di personalità scenica e vocale, sì. Roberto Alagna tornava alla scala dopo il famigerato affaire-Aida del 2006. A 59 anni, la sua voce non è più freschissima ma ancora salda, piena e voluminosa. Certo, Alagna o canta forte o canta forte, senza sfumature.

 

mario martone mario martone

Ma la tessitura bassa di Loris gli conviene, e il personaggio si adatta bene alla sua tenorilità spiccia, modello “io Tarzan, tu Jane”. L’aspetto peggiore della sua esibizione non è lui ma i suoi aficionados, che hanno rotto le scatole per tutta la serata. Eccellente Serena Gamberoni come Olga Sukarev (che nomi, però), bellezza in bicicletta da dove canta la sua aria, e molto bene, mentre

 

George Petean, De Siriex, quello della donna russa, era evidentemente in serata infelice. Comunque, al debutto, applausi per tutti, tranne un paio di buuu alla protagonista e molti di più a Martone: ma ormai alla Scala chiunque esca dal salotto di nonna Speranza sa che sarà linciato a prescindere.

alberto mattioli alberto mattioli

 

Il poscritto è dedicato alla prima assoluta, la mattina stessa, del Piccolo principe, opera per ragazzi di Pierangelo Valtinoni. Valtinoni è uno degli operisti contemporanei più rappresentati al mondo, ma in Italia, con qualche eccezione, finora è stato abbastanza snobbato. A torto: le sue opere, scritte su libretto di Paolo Madron (che, curiosamente, nella vita è uno dei più famosi – e bravi – giornalisti economici) sono dei prodotti accuratissimi e piacevoli, una musica contemporanea “di scuola” ma che non rinuncia a relazionarsi con il pubblico, talvolta piaciona, spesso ispirata e sempre efficace, fra un Puccini senza nevrosi e un Lloyd Webber meno cinico.

 

Funziona, è il meno che si possa dire, come alla Scala funzionavano lo spettacolo semplice ma non rinunciatario di Polly Graham, la direzione autorevole di Vitali Alekseenok, l’Orchestra e il Coro di voci bianche dell’Accademia del teatro e, con qualche distinguo, i solisti di canto della stessa accademia. Forse non sarebbe una cattiva idea far uscire Valtinoni dalla zona protetta dell’opera per ragazzi.

roberto alagna roberto alagna roberto alagna roberto alagna

 

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