Gian Paolo Serino per il Giornale
Non è soltanto una raccolta di saggi su Pasolini ma è un corpo a corpo con la letteratura, con l’idea stessa di letteratura come materia viva che si evolve nel momento stesso in cui dalla lettura passiamo alla vita. Walter Siti manda in libreria Quindici Riprese (Rizzoli, pagg. 412, euro 20) dimostrandosi ancora una volta l’unico scrittore italiano contemporaneo capace di trasformare l’inchiostro in un respiro, le parole in un atto di purezza e infine di generosità che lo contraddistingue da ogni altro autore.
In questi che sono, come recita il sottotitolo “cinquant’anni di studi su Pasolini”, Walter Siti si confronta con Pasolini - del quale è massimo studioso e alla sua opera ha dedicato dieci Meridiani Mondadori- e in qualche modo si spoglia dall’oggetto della sua ricerca che è per Siti un’ossessione che lo ha accompagnato per quasi una vita.
Un’ossessione che si avverte ancora: perché Siti tradisce questa ossessione in molte di queste pagine facendo ampissimo uso del pronome “lui”: lui è la parola che ricorre maggiormente in tutto il libro. Se da una parte Siti vuole “smitizzare” Pasolini dal dramma di essere diventato un “personaggio pop” poco letto ma molto citato persino da “politici corrotti, soubrette televisive e giornalisti buoni per tutte le stagioni” dall’altra è lui stesso a cercare di liberarsi dal daimon di Pasolini, da quel suo essere “volontariamente o involontariamente scandaloso come fosse un rimprovero alla mia pavidità”.
E’ difficile comprendere nella prefazione inedita e nei saggi presentati - già apparsi in riviste, saggi, introduzioni- quando Siti è oggettivo o quando appare come una delle tante vittime di Pasolini stesso. Un Pasolini oggettivamente capace di cannibalizzare chiunque perché, come annota lo stesso Siti, “il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai creato è Pasolini stesso”.
Un Pasolini che non ha lasciato eredi, se si esclude “Vincenzo Cerami che comunque è sfuggito per la tangente, liberandosi del terribile Salò con l’invenzione di La vita è bella”.
Neanche Siti si considera un erede perché “contemplo la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l’ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali” ma “invidio la fama che il destino gli ha concesso”. E aggiunge “Congedando questo libro (…) getto tardivamente le stampelle, mi dico illudendomi che sia un gesto coraggioso – ma forse è solo il senile volermi allontanare da qualcuno che ancora mi rimprovera, che mi sventola in faccia la mia rassegnazione a tacere e dunque è un’ultima prova di viltà”.
Siti racconta da una parte l’intellettuale Pasolini che del suo essere controcorrente non ha mai voluto fare una corrente (Siti scrive che non ci ha lasciato, ad esempio, un “manifesto letterario”) e dall’altra un Pasolini che comprende come la letteratura non possa colmare il vuoto dell’essere umano pur essendo il primo tra i letterati: “Molto più che tra i suoi contemporanei Levi, Sciascia o Fenoglio, voleva essere considerato un letterato, impegnato a fare strada, a scrivere lettere per vedere recensiti e premiati i suoi romanzi”.
Per Siti “Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale” e anche “Montale è stato poeta più grande di lui, Morante e Moravia sono stati romanzieri migliori, Fellini è certo più indiscutibile come regista. Pasolini è stato tutte queste cose insieme e non c’è strada letteraria e culturale in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta che lui non si sia messo per traverso”. Per Pasolini, conclude Siti, la “parola Letteratura ha un valore negativo contrapposta alla poesia”.
E in questo Siti ricorda l’Arthur Rimbaud che nell’opera incompiuta Divina Mimesis -la rivisitazione in chiave moderna della prima cantica della Divina Commedia - accoglie Pasolini e gli mostra grandissimi scrittori che non hanno paura della letteratura perché “non si ha paura di ciò di cui sei più forte”. Forse perché, leggendo i passaggi dove Siti mostra un “Pasolini prefabbricato per mito”, “un triangolo tra Artaud, Dom Franzoni e Marilyn”, viene in mente l’incipit della poesia Autopsicografia di Fernando Pessoa: “Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/il dolore che davvero sente.”
La grandezza del libro di Walter Siti è che in queste “quindici riprese” il Walter Siti saggista raggiunge vette di certo superiori ai tanti che hanno dedicato centinaia di libri a Pasolini, ma quel che è ancor più interessante è lo scrittore che emerge. Sono saggi, certo, ma è anche il romanzo su un uomo ossessionato dallo stesso mito che cerca di sfatare: se da una parte Siti sembra sconfessare questa idea (come quando sembra troppo esplicitamente prenderne le distanze evidenziando che ha perso due delle tre lettere che Pasolini gli inviò mentre era studente alla Normale di Pisa), dall’altra leggiamo di artista che di Pasolini ha subito tutte le influenze, gli affronti, le arroganze, le violenze del suo “corpus” letterario.
Leggiamo di un artista che influito un altro artista, di un poeta che ha depotenziato un altro poeta (desiderio di Siti che più volte tra le si rammarica di non esserlo). E’un match impari, per usare il termine pugilistico del titolo, dove Pasolini ha sempre combattuto (come nella vita) a “mani nude” (concetto che Siti usa più volte) mentre Siti non ha compreso, forse per timidezza forse per arroganza, che se avesse deposto guantoni e caschetto di protezione sarebbe stato tutto un altro incontro. Quindici riprese è uno scontro tra due intime timidezze: urlata quella di Pasolini, soffocata quella di Siti.
Quindici riprese è senza dubbio il libro definitivo su Pasolini - tantissimi gli aspetti che qui abbiamo tralasciato, impossibili riportarli tutti- ma è al contempo il secondo miglior romanzo di Walter Siti: non perché vi siano invenzioni letterarie ma perché è un libro che commuove per la purezza e generosità che citavamo all’inizio. Walter Siti è il più generoso dei nostri scrittori: avendo frequentato per così tanto tempo gli inferni di Pasolini quando lo si legge si ha la sensazione di accarezzare le sue parole come fossero spine nel tempo. E l’ulteriore sensazione è che dopo cinquant’anni di studi pasoliniani sia arrivato alla stessa conclusione che ha recentemente raccontato Mario Elia nel podcast Perché Pasolini?: Elia appena quattordicenne fu adescato da Pasolini tra le borgate romane e oggi sessantenne in dialetto romano si interroga “Ma Pasolini che ha fatto per noi? Che ha fatto per noi borgatari? Niente. E’ morto senza fà niente, senza un manifesto, senza un aiuto, ma che ha fatto? Scriveva, scriveva, scriveva, ma che si scriveva?”.
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