Paolo Di Stefano per il ''Corriere della Sera''
Per raggiungere Federico Sanguineti basta andare su Facebook, dove sotto la sua fotografia con cilindro nero un po’ buffonesco troverete il suo motto: «La vita è un partorirsi quotidiano». Tutto con lui assume un carattere stralunato e insieme puntuale fino alla pignoleria, un continuo pendolarismo tra poesia comico-burlesca e filologia. Filologia italiana è la disciplina che Sanguineti insegna a Salerno da diversi anni, con un occhio particolare a Dante, suo cavallo di battaglia sin dagli Anni 80, e tanto più da quando nel 2001 pubblicò una edizione critica della Commedia che fece scalpore.
Dopo la famosa edizione di Giorgio Petrocchi (1966-67), che definiva il corpus di manoscritti più importante nella cosiddetta «antica vulgata», cioè nei 30 codici anteriori a Boccaccio, Sanguineti riprendeva in considerazione i seicento manoscritti non frammentari, arrivando a considerare validi per la ricostruzione del testo sette soli testimoni. Tra questi, identificava il più autorevole nell’Urbinate 366, di colore linguistico emiliano-romagnolo. Ne nacquero adesioni entusiastiche (per esempio da Maria Corti) e serie obiezioni, come quella di Cesare Segre. Il quale esprimeva le sue perplessità sui tratti linguistici anti-fiorentini dell’edizione.
Sanguineti ha continuato a lavorare ed è giunto, con gli anni, a nuove e diverse acquisizioni. Nel 2018, per il Melangolo, con la collaborazione di Eleonisia Mandola, è uscito un Paradiso e di recente un Inferno, basati sul «più antico codice di sicura fiorentinità». Che, a differenza di quel che si è creduto per lungo tempo, non sarebbe il celebre Trivulziano 1080, datato 1337.
Il fatto è che se dal punto di vista linguistico i codici settentrionali sono poco affidabili, perché hanno una patina estranea all’originale (ovviamente fiorentino), sul piano testuale, essendo il frutto della prima diffusione del poema, avvenuta al Nord, sono meno corrotti. Entrano dunque in gioco due manoscritti fiorentini che, secondo i nuovi studi, sarebbero più antichi del Trivulziano, un Parmense 3285 e, in primis, il Pluteo XL 12 conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze).
Ambedue collocabili tra il 1325 e il 1334. È inutile dire che ci sono schiere di dantisti dediti a edizioni alternative che sono in parziale o totale disaccordo con le ipotesi di Sanguineti (Paolo Trovato, Giorgio Inglese e Enrico Malato). Ed è Sanguineti, oggi, il nostro interlocutore. Figlio di Edoardo, il celebre poeta, teorico della neoavanguardia, critico e dantista, Federico non esita a dichiarare le sue riserve sull’andazzo della filologia dantesca (e non solo). E non gli manca l’ironia.
«I colleghi filologi — dice — sanno tutto, come i virologi, ma la verità è che non ne sappiamo quasi nulla della Commedia e che l’atteggiamento critico migliore del filologo, come quello del virologo, sarebbe la prudenza».
Invece?
«Come diceva il grande filologo Giuseppe Billanovich, molti fanno le edizioni critiche col pallottoliere... Anziché fare un riesame della tradizione, si prende una vecchia edizione, come quella del Petrocchi, e si “corregge” un po’ qua e un po’ là. La reazione che provo è un misto di malinconia e di indignazione».
Ma a cosa serve stare a rompersi la testa per anni su un’edizione critica della «Commedia»?
«Serve a dimostrare ciò che pare ovvio, ma che solo recentemente Giovanna Frosini ha espresso con chiarezza, affermando che il testo di Dante ci è stato trasmesso alterato “fino a divenire inattingibile nella sua verità ultima”. In una edizione critica si ha un’ipotesi di lavoro che, se onestamente condotta, dà la misura di quanto approssimata sia la nostra conoscenza del testo. Il lavoro di Mandola sul Paradiso rappresenta il miglior risultato oggi possibile ed è interessantissimo che, pur con metodo completamente diverso, confermi al 99% il risultato di Petrocchi, un gigante sulle cui spalle ancora si arrampicano molti nani».
In quell’uno per cento cosa c’è?
«Le faccio un solo esempio dal VI dell’Inferno, dove incontriamo Cerbero con la “barba unta e atra”. La famiglia di manoscritti Beta porta una lezione diversa: non barba ma “bocca unta e atra”. Nelle miniature più antiche Cerbero è raffigurato senza barba, e mi chiedo perché mai Dante avrebbe dovuto inventarsi la barba. Tra l’altro, la traduzione francese dell’Eneide, l’Eneas, riporta l’equivalente della “bocca unta e atra”. Non possiamo lasciare Dante in mano agli accademici che vogliono solo avere ragione».
E le varianti fonetiche, oltre alla «selva oscura» che diventa «scura»?
«Ce ne sono alcune significative come “novicento” al posto di “novecento”, “elza” (della spada) al posto di “elsa” o “nessuno” al posto di “neuno”, tutte forme riconducibili al tempo di Dante».
Anche quello del 2001 era il solo risultato allora possibile?
«Oggi tutti mi inchiodano all’edizione del 2001, anche se sono passati vent’anni. Lo definiscono un lavoro coraggioso, ma io ho continuato a lavorare. Ignorano l’edizione del Paradiso e quella dell’Inferno: il silenzio più assoluto, non ne accennano neanche per dire che è una schifezza. In vent’anni è cambiato molto».
Per esempio, la questione del colorito linguistico?
«Ormai i codicologi, i paleografi, gli storici delle miniature hanno dimostrato che il Trivulziano 1080 non è il più antico codice fiorentino. Sappiamo che il Maestro delle Effigi Domenicane ha miniato cinque manoscritti della Commedia e il Trivulziano è il quarto. Prima vengono sicuramente il Pluteo e il Parmense: dunque, per l’aspetto linguistico sono questi i due più autorevoli. Oggi sappiamo questo, poi magari domani sapremo un’altra cosa… Ma i filologi fingono di ignorare tutto».
Sembra che il tasso di litigiosità sia altissimo. Lei su Dante ha polemizzato anche con suo padre.
«Nell’89 a Salerno chiesi di partecipare a un convegno e intervenni con una relazione su Sanguineti dantista: contestai a mio padre l’idea di un Dante reazionario e il parallelo con Pound. Fu uno scandalo».
Non ha mai avuto il mito di suo padre?
«No, mai. Il che non mi impedisce di riconoscere la sua importanza... Importanza relativa, però. Se guardo al Novecento italiano dove il sole della cultura ha in fondo avuto un volo piuttosto basso, come direbbe Karl Kraus, mio padre mi pare un gigante. Il discorso cambia se mi pongo in un’ottica che supera i confini nazionali: allora noto i limiti dell’opera rispetto, poniamo, a Brecht o Lukács».
Eppure, è stato un faro per tanti della sua generazione.
«C’è gente che vanta mio padre senza aver letto una riga. Poi mi viene in mente il nome di uno scrittore del Settecento e dico: sì mio padre è importante come Aurelio de’ Giorgi Bertola, che oggi nessuno conosce... D’altra parte, Berio mi diceva: tuo padre è Dante».
Lo pensava davvero?
«Lo diceva un po’ per gioco un po’ per non morire. Berio era molto spiritoso: nell’ambiente frequentato da mio padre c’era un grande divertimento, inimmaginabile oggi: ho vissuto l’infanzia circondato dalla gioia di vivere, poi erano persone anche complicate, con le loro depressioni, l’alcol... Io ero affascinato dalla figura di Enrico Filippini. Uno dei racconti più belli del Novecento italiano è L’ultimo viaggio, che mio padre detestava, ma era un limite di mio padre: invece è un racconto sconvolgente, ho i brividi solo a pensarci».
Allora Filippini era il germanista, editor della Feltrinelli...
«Mio padre non esisterebbe senza Filippini, è stato lui a pubblicare il Gruppo 63, lo dico un po’ con l’ingenuità del bambino che vedeva sempre Filippini in casa che corteggiava mia madre scherzando... Una volta con la sua auto sportiva a due porte venne a prendere mio padre per andare a Milano. Mia madre era preoccupata perché Filippini era sempre circondato da belle ragazze, allora infilò in macchina anche me. La sera i due amici erano completamente ubriachi quando si accorsero che era tardi per l’ultimo treno e Filippini si mise a correre in auto per Milano a duecento all’ora salendo anche sui marciapiedi, io mi tenevo con le due mani ai sedili, ero euforico...».
È stata una bella adolescenza?
«Mio padre scriveva poesie per me sin da quando ero nell’utero di mia madre, una di queste diceva: “ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera, il nichel”. Tutte le sere, invece dell’Ave Maria sentivo: “ti attende il filo spinato...”. Il mio professore Ugo Dotti, che odiava mio padre, mi diceva: dovresti farti pagare come fanno le modelle con i pittori».
Sua madre sarà stata meno inquietante...
«Il suo motto da sempre era: l’università è piena di cretini, stai tranquillo che c’è posto anche per te…».
Come consiglierebbe di leggere la «Commedia» a scuola?
«Consiglierei di leggere senza commento, che era il consiglio di De Sanctis. Bisogna togliere il mito del capire tutto a ogni costo, presumendo che si sappia già tutto. Non posso ascoltare un concerto di Mozart senza aver letto una monografia sul Don Giovanni? Devo lasciarmi prendere dal piacere, anche se sbaglio e leggendo “Tanto gentile e tanto onesta pare” penso che quella è una puttana… Non fa niente, meglio leggerla comunque, anche senza conoscere l’analisi di Contini».
Legge la narrativa attuale?
«Considero Giuliano Scabia il più grande scrittore vivente, il ciclo di Nane Oca è il Faust del nostro tempo... un Faust il cui protagonista non è Faust ma Wozzeck... Come si fa a non vedere la grandezza di un capolavoro così? È pazzesco che nessuno lo riconosca. È la stessa cosa del Laurenziano Pluto XL 12…».