Pino corrias- nostra incantevole italia copertina
Dal libro di Pino Corrias, "NOSTRA INCANTEVOLE ITALIA", oggi in libreria, ed. Chiarelett
“Il pettegolezzo è un’attività sociale altamente evoluta”
(Robin Dunbar, psicologo evoluzionista)
“Il sito è la mia opera. Finisce ogni sera e ogni mattina ricomincia”. (Roberto D’Agostino)
Un tempo Roberto D’Agostino, titolare del sito Dagospia, cercava le notizie che nessun giornale pubblicava: era l’anno 2000, e ne metteva in rete tre al giorno. Oggi che ne pubblica un centinaio, scelte lungo la diagonale che va dallo scoop al pettegolezzo, ma anche viceversa, sono le notizie che cercano lui. Per farlo viaggiano da un I Phone all’altro, salgono dai labirinti romani fino ai tre piani più alti di piazza Nicosia, dove una palma di plastica verde, illumina la sua dondolante impermanenza serale su uno dei paesaggi più belli e inquietanti della decadenza italiana, i tetti dei Palazzi del Potere, cominciando dal più grande di tutti, quello a forma di cupolone.
Tre piani e tre terrazze sul Lungotevere da cui si affacciano un Berlusconi e un Mao Zedong – altezza e plastica come dal vivo – che a braccia spalancate sopportano i rispettivi passati. Dietro di loro, le vetrate di un appartamento multistrato da cui Dago esce raramente, qualche volta dopo le nove di sera per una cena e al sabato mattina per lo shopping. Gli effetti delle cene finiscono spesso sul sito. Quelli dello shopping – che è il suo modo di svuotare il mondo per riempire il suo - sono distribuiti su tutte le superfici della casa, compresi i soffitti da cui pendono notevoli luci, cristalli, specchi, installazioni di Nam June Paik e Bill Viola, perfino un tavolo a mezz’aria e un paio di scarpe di Fiorucci inchiodate a testa in giù.
Gli scaffali sono coperti da una permanente esposizione ultrapop di santi e suore non del tutto pie, pesci, mostri volanti, ex voto e organi sessuali, video, computer, immagini sacre, libri profani, animali stampati in 3D. Una gigantesca Moana Pozzi guarda il naufragio intrappolato nella tela di Anselm Kiefer. Andy Wharol fronteggia Schifano. I mobili di Gaetano Pesce quelli di Ron Arad.
Un archeo jukebox suona musica in vinile, mentre uno schermo sempre acceso manda video porno d’autore in ossessiva rotazione a ricordarci le forme complesse dell’amore. Su tutti sgocciola il sangue di Damian Hirst, il grande bluff dell’arte contemporanea che ha trasformato in un investimento milionario gli squali veri e i teschi falsi.
Dalla sua Wunderkammer Dago – molti tatuaggi, barba ieratica, look post punk che poi vuol dire cuoio, catene e cuore da maneggiare con cura - si gode l’Italia, giudicandola “una tragedia che una volta scritta si trasforma in farsa. E una volta letta diventa un gioco di società”. In questo gioco di società lui non muove i fili, ma li guarda e qualche volta li svela. Per stare a fatterelli recenti, ha previsto contro tutti i pronostici, la vittoria di Donald Trump in America, e la disfatta di Matteo Renzi al referendum sulle riforme costituzionali.
E’ il re del superfluo illustrato che diventa essenziale. Si definisce “non di destra, né di sinistra” ma “alto e basso”. E dunque anche “credente e erotomane”. Dice: “Parlo di cose serissime e insieme di cazzeggio, di Vaticano e liposuzioni. Delle banche venete e toscane che inceneriscono i risparmiatori e di sesso anale che infiamma l’amore. Dell’Isis che macella persone vive e della povera Virginia Raggi che si aggira sui tetti romani tra i piccioni morti. E’ un buon modo di raccontare il mondo. E di farlo in modo realistico”.
Gli rimproverano un eccesso di pettegolezzo. Ma lui risponde con un paradosso: “Il pettegolezzo oggi è l’unica forma di giornalismo possibile”. Il più efficace a raccontare il potere e la politica che praticano il segreto e trafficano in segreto, ma sempre facendo finta di dirci tutto il necessario dentro l’innocua sincerità di un selfie.
Lui pubblica i selfie, specie quelli “dei morti di fama”. Come ha fatto per la prima dozzina degli anni Duemila, apoteosi del Cafonal, che è poi la rassegna fotografica (by Umberto Pizzi, il grande narratore per immagini) di faccendieri, cicisbei, cortigiane e imbucati che arredano con notevole molestia il paesaggio romano, e finiscono sempre per svelare la loro vera natura al buffet: “Siamo all’eterno Totò che si riempie le tasche di pasta al sugo. Possono essere austeri professori o autorevoli padri della Patria, ma quando compare il buffet gratis, tutti si avventano come fedayn, quelli di destra, quelli di sinistra e quelli del centro tavola”.
A disonore di quella folla, dice: “Il potere vero è invisibile. Vent’anni fa tutti parlavano di Berlusconi e nessuno di Enrico Cuccia, il burattinaio di Mediobanca che ha governato il capitalismo italiano per mezzo secolo. Oggi il potere sono le banche, le finanziarie, le multinazionali con sede fiscale in Irlanda, consiglio di amministrazione a Londra e uffici alle Isole Cayman. La Merkel, Trump e Gentiloni sono solo marketing passeggero. Prodotti colorati e pratici da usare per una o due stagioni. Mentre i titolari dei capitali che si muovono nel mondo reale restano dietro i loro schermi a godersi lo spettacolo”.
FRANCESCO COSSIGA BARBARA PALOMBELLI
Dago racconta lo spettacolo e, svelandolo, anche qualche sua conseguenza sul mondo reale. Dice: “A me Internet ricorda il ciclostile che negli Anni Settanta trasformava le chiacchiere in testi e i testi in azione. Tutto quello che mi arriva è online dopo dieci minuti, il tempo di due telefonate di verifica. Posto che in un Paese normale il mio sito non esisterebbe, Dagospia è il miglior modo di navigarci dentro. E’ una tavola che segue l’onda, si infila, riemerge; è flessibile, non dà comandamenti, ma aggiorna sulle ipotesi”.
anteprima di dago in the sky (2)
E i giornali? “Ah!”, ride. “I giornali di carta! Mi ricordo le prime volte che scrivevo sul Messaggero e aspettavo l’alba per leggere il mio pezzo in pagina. Oggi i giornali sono morti che camminano, intrappolati nel Novecento. Fanno ancora sei, otto pagine di politica per accontentare tutti gli amici dei loro finti editori che campano con i finanziamenti della politica o fanno affari grazie alla politica. L’Indipendent o l’Herald Tribune mettono tutta la politica in una pagina e solo quando il governo decide qualcosa, la spiegano e la commentano. La carta servirà ancora per gli approfondimenti e per la condivisione di uno sguardo e di una idea sul mondo. Ma nel giorno per giorno, Internet ha spazzato via tutto, come fa il vento dei tifoni”.
A proposito dei nuovi media e giornali di carta. E’ il loro declino a rendere possibile i siti di informazione come Dagospia. “E’ la velocità contro la lentezza”, mi ha spiegato Edoardo Fleishner, uno dei maggiori esperti di nuove tecnologie e di comunicazione, che ogni settimana racconta i nuovi scenari della comunicazione dai microfoni di Radio Radicale. “Non è più in discussione la fine dei giornali di carta, solo il quando. Rimarranno in forma residuale come consumo d’elite, come stravaganza culturale. E saranno giornali molto identitari, con un profilo coerente alla propria comunità di lettori”.
DAGOSPIA E POLITICO - DA IL MESSAGGERO
E’ vero che non c’è automatismo tra la nascita di nuovi media e la scomparsa di quelli vecchi. Ma c’è un destino che si incarica di ridurne il peso anche economico. Il teatro è sopravvissuto al cinema. E il cinema alla televisione. Persino i supporti delle vecchie tecnologia – come il vinile o le videocassette o i registratori a nastro magnetico o le macchine fotografiche con la pellicola – respirano ancora dentro certe nicchie di mercato appena un po’ più ampie del puro e semplice collezionismo.
Ancora Fleishner: “Ma non è affatto un caso che il modo più semplice di reperire uno qualunque di questi reperti dei mondi passati sia quello nuovissimo del Web: Amazon, Ebay, Alibaba, oppure Google. Perché la vastità della Rete ha una efficienza che era inimmaginabile solo pochi anni fa. E l’innovazione tecnologica accelera esponenzialmente anno dopo anno. I computer che hanno portato l’uomo sulla Luna riempivano un buon numero di grandi stanze. Oggi quella capacità di calcolo, moltiplicata per dieci, sta nello smartphone che ci portiamo in tasca. E a breve i computer saranno indossabili, non solo negli occhiali e negli orologi, e una telecamera potrà avere un’ottica piccola quanto la frazione di un millimetro”.
Tutto questo per dire che la pervasività di Internet, la sua velocità, “la sua capacità di mettere in comunicazione la domanda e l’offerta”, sarà totale e istantanea, integrata a qualunque materiale, con schermi virtuali fatti di luce e aria. E a questo punto tornare a parlare della carta fa sorridere.
Scrive Wolfgang Blau, 48 anni, responsabile delle strategie digitali del Guardian: “I giornali non stanno morendo per incapacità degli editori o per una congiuntura economica: si estinguono perché non hanno più il ruolo che la storia ed il tempo gli avevano assegnato, non sono più lo specchio della società.
INTERVISTA A DAGO SU POLITICO LINKATA DA DRUDGE REPORT
Internet ha cambiato il modo di comunicare, di informarci, di rapportarci alle due dimensioni fondamentali, quelle dello spazio e del tempo. Ha cambiato l’ecosistema dell’informazione ed il modello economico che lo sosteneva: le notizie avevano un valore in quanto scarse, rare e rilevanti. La sovrabbondanza informativa della Rete ha reso le notizie un bene di scarso valore economico, reperibili ovunque e senza doverle pagare. Semplicemente ci ha cambiato la vita”.
Fleishner: “Già oggi il Web ti apre una platea di 3 miliardi di persone in un solo istante. Funziona con un meccanismo che gli americani chiamano “look and feel”, dai un’occhiata e senti qualcosa. L’occhiata dura un secondo, il tempo di una foto e di un titolo. Se uno dei due ti attraggono o ti riguardano, entri, altrimenti passi altrove. E’ surf sul mondo. Ma ad alta intensità emotiva, perché è una estensione delle tue capacità sensoriali: vedi in un attimo, capisci e ti emozioni in un attimo, ti stanchi in un attimo. E insieme, offrendoti la parola, ti consente di sfogarti, se qualcosa non ti piace, oppure di consolarti, se trovi quelli che la pensano come te”.
DAGOSPIA LETTURA OBBLIGATA - DA IL GIORNALE
Stabilita la disparità di mezzi (e di destini) tra la carta e la Rete, sorprende che in questa ultima dozzina di anni sia stato fatto così poco per cambiare la forma, il contenuto e la missione dei giornali, rimasti ancorati, con poche innovazioni, ai modelli del passato. Il penultimo riguarda la straordinaria cavalcata di Repubblica, ideata e guidata da Eugenio Scalfari, anno 1976, che sveltì il formato, archiviò la polvere delle terze pagine, rese quotidiano lo stile di scrittura dei settimanali, moltiplicò il reportage, raccontò come un’avventura l’Economia, la Politica, lo Spettacolo e la Cultura, ma soprattutto divenne un “certo modo di guardare il mondo”, di una Italia colta, disincantata, progressista.
Vent’anni dopo fu Paolo Mieli e il mielismo – prima su La Stampa, poi sul Corriere della Sera - a piegare ancora un po’ la forma e lo stile dei giornali, inseguendo il rotocalco televisivo, con tutte le conseguenze voyeuristiche del caso, che intreccia il racconto del giorno al suo commento, meglio se superficiale e appena un po’ indiscreto. Cominciando da quei giorni cruciali del 1992, Tangentopoli in corso, battaglia per il Quirinale appena sgomberato da Cossiga, quando in riunione l’ordine di servizio del direttore fu: “Sentiamo cosa ne pensa Alba Parietti” detto come se fosse un’idea intelligentissima, spiazzante e insieme così spregiudicata da rendere qualunque obiezione penosamente moralista.
E il giorno dopo toccò a un cuoco e a una cantante. Poi a un’attrice e a un allenatore di calcio. Per non dire dei comici e dei conduttori televisivi. In un crescendo che diventò format, il cosiddetto “dice-dice”, alimentando una intera stagione giornalistica che si incaricava di nutrire, con opportune dosi di questo dolcificante, la golosa curiosità dei lettori. Stagione per un po’ persino divertente, ma sostanzialmente innocua, che non per nulla veleggiò sulla superficie di molti altri giornali durante la piccola era berlusconiana, a copertura di infinite cautele, di mediocri carriere, di piccole polemiche senza danni.
Da allora, il disastro di copie in corso non ha portato nuove idee. Vent’anni fa Il Corriere e La Repubblica insieme vendevano 1,1 milioni di copie. Alle soglie del 2018, sommando le loro copie in edicola non si arriva alle 400 mila. Eppure nessun giornale ha ancora cambiato qualcosa di sostanziale nelle sue pagine, nelle sue scelte, schiacciati dall’abitudine e dalla politica, dal piccolo conformismo che si tiene lontano dai guai, dalla mancanza di idee e di orientamento, come qualche volta capita a certi branchi di cetacei che non cambiano rotta nonostante si avvicinino sempre di più alle acque basse e mortali della spiaggia.
I siti potrebbero essere una buona riserva di ossigeno per la carta stampata, ma ancora non si è capito come farli fruttare, in termini di costi e di incassi. Troppi addetti e poca pubblicità. E troppe notizie disponibili gratuitamente, istante dopo istante, per far pagare le proprie.
ROBERTO DAGOSTINO DAGO E PAOLO VILLAGGIO FOTO MARCELLINO RADOGNA
“A meno che l’autorevolezza e l’affidabilità della testata non facciano premio su tutto – spiega ancora Fleischner –. In questo senso il brand di un giornale è la sua maggiore ricchezza. O dovrebbe esserlo. Come per la Ferrari, che ha un marchio talmente forte da mobilitare i suoi tifosi anche quando perde. Ma al brand ci devi aggiungere foto bellissime, video esclusivi, racconti scritti in modo scintillante, notizie che gli altri non mettono. E l’irriverenza verso il potere che non guasta mai”.
Il che ci riporta dritti a Dagospia.
Roberto D’Agostino sta sulla scena da una quarantina d’anni. Nasce nell’anno 1948, in via dei Volsci, quartiere popolare di San Lorenzo, padre saldatore, madre bustaia. A 16 anni, con il suo amico Renato Zero, frequenta il Piper, tempio del beat romano, e gli studi radiofonici di via Asiago, dove Gianni Boncompagni registra Bandiera gialla. A 18 si diploma ragioniere: “Mia madre, che faceva i reggiseno all’amante di un onorevole, chiede una raccomandazione e la ottiene. Nell’anno 1968 finisco bancario alla Cassa di Risparmio di Roma, sportello fidi, dove ho scoperto che nessuno dei miei clienti pagava le tasse, macellai, pizzicagnoli, orefici, sarti, tipografi, e tutti votavano riconoscenti la democrazia cristiana.
ANNI '90: CINDY CRAWFORD E DAGO ANNI '90: CINDY CRAWFORD E DAGO
Dodici anni di apnea, ma con tutte le notti per me, a inseguire il mondo che stava cambiando. Quando mi rimproverano di essere troppo romano, troppo cinico, rispondo che tutto il cinismo l’ho imparato là dentro, in banca, in mezzo a gente che cercava di sopravvivere alla noia, alla depressione, compresi i clienti intrappolati dalle cambiali. Mi ricordo che un giorno davanti allo sportello c’era una fila lunghissima. In fondo vedo una donna incinta, tutta sudata che arranca, chiede permesso, tutti la fanno passare, tranne uno che la guarda stanco e le dice: ce dovevi pensa’ prima… Sono scoppiato a ridere. Ma quel giorno ho deciso che mi sarei licenziato”.
Di notte fa il dj. Di giorno bazzica i giornali, scrive di musica e di controcultura. “La controcultura era Guy Debord, Kerouac, Fernanda Pivano. Ma era anche che i miei articoli li firmava pure Tina, la mia prima moglie femminista, che siccome faceva i lavori di casa consentendomi di scrivere, era autrice quanto me e le andava riconosciuto. Del resto alla mia festa di matrimonio a fine cena, tutti i maschi presenti, compreso me che ero il festeggiato, siamo andati in cucina a lavare i piatti”.
Dalle prime fanzine approda ai rotocalchi di moda, poi ai settimanali. Scrive di costume e di mondanità. Ingaggiato da Renzo Arbore in “Quelli della notte” (anno 1985) diventa il lookologo nazionale, parlando di edonismo reaganiano (“mai saputo cosa fosse”) e dell’insostenibile leggerezza dell’essere (“che invece ero proprio io”). “Tutte cose che mi ero inventato per i giornali, ma che dette in tv diventano un tormentone nazionale. E su quel tormentone ci ho campato per il resto degli anni, imparando che in tv non serve dire cose sensate, ma solo ripetere un buon titolo e al massimo un gioco di parole, cosa che Berlusconi, nei suoi anni d’oro, aveva capito benissimo”.
Passano gli aurei Ottanta. Arriva la stagione dell’Espresso, dove Dago diventa l’inviato permanente a cene, feste, discoteche e salotti. “Di notte venivo a sapere una infinità di notizie che la mattina dopo non ritrovavo sui giornali e la cosa mi incuriosiva, anche se a dire il vero me la spiegavo, perché i direttori volevano campare senza farsi male, e andare a nanna tranquilli. Ma siccome il mio quadernetto di appunti si intitolava spettacoli, società e costume, non era un mio problema, contenti loro, contenti tutti”.
Almeno fino al giorno in cui D’Agostino inciampa sul più santo di tutti i santuari italiani, quello abitato dall’ultimo re d’Italia, Giovanni Agnelli. “C’era una di queste pompose regate per miliardari annoiati e al porto di Auckland, Nuova Zelanda, l’Avvocato sta per salire sulla barca di Bertelli, quello di Prada. Bertelli gli dice di non salire perché porta sfiga. Una battutaccia, niente di più. Me la riferiscono. La scrivo.
E siccome l’Avvocato era con Susanna, la sorella, scrivo che era arrivata anche la Vecchia Zelanda. Una cazzata. Quando esce, la legge Alain Elkann che la riferisce a Carlo Caracciolo che lo dice a Agnelli. Il quale si incazza, non so se per la storia che porta sfiga o per la Vecchia Zelanda, chiama o fa chiamare Giulio Anselmi, il direttore dell’Espresso. Risultato la mia rubrica che era di cinque pagine e si chiamava Spia, viene ridotta a una. Stavolta mi incazzo io per tutte queste tremarelle che diventano tempeste in un bicchier d’acqua, mi bevo il bicchier d’acqua e mi dimetto”.
Era il 1999. La prima casa della sua nuova vita – dopo il secondo matrimonio con Anna Federici, famiglia di costruttori, lei titolare di una azienda agricola dalle parti di Boccea – sta all’inizio di via Condotti, di fronte alla scalinata di Piazza di Spagna, pochi metri in linea d’aria dal salotto più ambito di Roma, quello di Maria Angiolillo, vedova dell’editore del Tempo, signora del gran mondo romano.
“Era una donna fantastica, un mito meglio di Romolo e Remo, l’adoravo. E la facevo molto arrabbiare chiamandola Mariasaura, fondata nel 1918. Quel salotto era il termometro del potere romano, dai tempi di Andreotti, passando per Craxi, Almirante, Mancino, Violante, fino a uno spaesatissimo Umberto Bossi, invitato quando era in auge, con canottiera e cravatta verde, che tutti si davano di gomito e gli ridevano dietro, come in un film di Luciano Salce.
“Si vedeva a occhio nudo che quel salotto, dove comparivano i Della Valle e i Tronchetti Provera, i Caltagirone e i Bazoli, i governatori della Banca d’Italia, e i finanzieri d’assalto, era la camera di compensazione dove il potere politico e quello economico si incontravano. Dove l’intuizione di Andreotti e del suo uomo schermo, Gianni Letta, diventava un imperativo: perché escludere, quando si può aggiungere? A quelle cene ci andavano, scodinzolando, anche un sacco di direttori di giornali, ma mai una volta che da lì saltasse fuori una notizia. Tutti zitti e ubbidienti, come cagnolini.
“Desideri quel che vedi, diceva Hannibal the Cannibal, giusto? E io desideravo fortissimamente scrivere su tutto quel ben di Dio che vedevo, i massoni, i bancarottieri, le amanti, gli inciuci, per esempio che Bertinotti e Berlusconi, il comunista e il miliardario, cenavano insieme, alla faccia degli elettori grulli, e si facevano gli inchini a vicenda.
“Così capita che un giorno la mia amica Barbara Palombelli mi dice, ma perché non le scrivi tu quelle notizie? Magari sul web. Senza più direttori tra i piedi, editori, controllori. L’idea mi sembra una rivelazione, non l’aveva ancora fatto nessuno, sarei stato il primo. E siccome stavo leggendo il saggio di Tom Wolfe sulla “Me generation”, dalle Br alle Pr, dalla propaganda armata di noi, alla propaganda disarmata di se stessi, lo intitolo a mio nome, Dagospia, così me la canto e me la suono. Il simbolo della bomba con la miccia accesa la prendo dal Machintosch, compariva quando il programma si impallava. Faccio una grande festa e comincio a sparare. All’inizio ho 12 mila pagine cliccate, oggi arrivo a 2 milioni”.
In mezzo un intero bestiario di titolari e comparse, fatti e misfatti, segreti e circostanze che animano il grande circo di Dagospia, dove girano (in cerchio) personaggi trasformati in maschere anche nel nome: Marchionne diventa Marpionne, Armani, Trenta e Loden, Carlo De Benedetti la Tigre di Compracem, Veltroni, WalterEgo, Gentiloni, Er Moviola, la Santanchè, Santadechè, Tinto Brass, il Cinecologo, Bruno Vespa, Bruneo, e naturalmente Romano Prodi, Mortadella.
la lezione di dago alla sapienza 6
Un circo aperto tutti i giorni dalle 9 a notte fonda, molto odiato, molto amato, molto saccheggiato. Con grafica luccicante, fotomontaggi, titoli e sommari a effetto (“i giornali non sono capaci neanche di capire le notizie che pubblicano, devo sempre rifare i titoli e i sommari”) molto delle tre esse canoniche del giornalismo popolare, sesso-soldi-sangue (“mai devono mancare le bombastiche sgallettate”), una verifica in tempo reale delle notizie più lette (”quando serve sposto, reimpagino, tolgo una Boldrini che non clicca nessuno e metto una Maria Giulia Boschi che cliccano tutti”), una selezione quotidiana dal grande magazzino della carta stampata, e molto viagra giornalistico a rianimare i morenti della politica, da Pierfuby Casini al ducetto di Rignano, passando per Mattarella, la Salma.
DAGO, 1980 - Bologna, concerto dei Clash, pic Red Ronnie
Con una irriverenza politica che ha un padre nobile, Francesco Cossiga, il Gattosardo: “Matto, irascibile, simpaticissimo, cattivo, qualche volta disarmante e temerario. Mi telefonava ogni mattina per spiegarmi come andavano gli affari di Mediobanca, del Quirinale e dei Servizi segreti. Sui giornali a un certo punto non lo voleva più nessuno, perché ne avevano paura e scriveva articolesse troppo lunghe, così scelse Dagospia. Mi dettava le notizie e qualche volta me le scriveva lui direttamente”.
Quello di Dagospia è un linguaggio che irrita l’establishment, oppure lo entusiasma. Genera querele e apoteosi. Indigna i moralisti. Incenerisce il politicamente corretto. Non si lascia incasellare né a destra né a sinistra. Ma sempre “sopra e sotto, qualche volta di lato”. E una estetica sempre forzata, ridondante, nutrita dalla ossessione del sesso e dagli insegnamenti di uno dei suoi maestri, Federico Zeri, il sapiente: “Insieme passavamo intere giornate, lui mi raccontava il mondo e io imparavo a guardarlo con i suoi occhi”.
EDOARDA CROCIANI - DAGO - SILVIO BERLUSCONI
Insegnamenti che ha poi riversato nello sviluppo più recente del sito, la serie televisiva “Dago In The Sky”, sua personale storia dell’arte e del costume, per il canale Sky Art, che si apre con il distico di Guerre stellari: “Il futuro è”. Fabbricato con immagini prelevate da Internet che viaggiano, via Istagram, in un flusso continuo, come dentro lo schermo dei sogni. “Quella che uso è la mia idea di comunicazione aggiornata all’oggi. Niente lentezze, nessun piano sequenza, ma una folgorante cascata di immagini – dai corpi di Michelangelo a quello di Cicciolina - che finisce per svelarti qualcosa di inedito sul nostro modo di guardare e di raccontare il mondo”. Sempre accostando il sacro e il profano, il mistero ultraterreno alla banalità del vivere.
Proprio come nel sito, dove “il pettegolezzo di oggi, diventa la notizia di domani”. E tutte insieme, nei tempi futuri, diventeranno il racconto (“stupefacente”) di quello che siamo stati. “Un po’ come gli Annali di Tacito, dove raccoglieva la cronaca per fare la Storia, maestra di vita”, dice seriamente D’Agostino. Che poi ride: “Ma nel mio caso sempre passando dalla Scoria”.
L’AUTORE
Pino Corrias giornalista, scrittore. E? stato inviato speciale del quotidiano "La Stampa". Ha pubblicato "Luoghi comuni ? dal Vajont a Arcore, la geografia che ha cambiato l?Italia" (Rizzoli 2006), "Vita agra di un anarchico" (Baldini e Castoldi, 1993)," Colpo grosso", con Curzio Maltese e Massimo Gramellini (Baldini e Castoldi, 1994), "Ghiaccio Blu" (Baldini e Castoldi, 1999). Ha lavorato come sceneggiatore ("Ultimo", "Distretto di polizia"). Per Raidue ha condotto con Renato Pezzini l?inchiesta in 4 puntate "Mani pulite". Oggi è dirigente Rai, si occupa di fiction, ha prodotto "La meglio gioventù", regia di Marco Tullio Giordana e "De Gasperi", regia di Liliana Cavani. Collabora al quotidiano "La Repubblica" e al settimanale "Vanity Fair". Vive e lavora a Roma. Nel 2012, ha pubblicato per Chiarelettere ‹L'illusionista› (con Renato Pezzini e Marco Travaglio).