Alessandro Ferrucci per il “Fatto Quotidiano”
A sessanta e passa anni si può trovare il coraggio mancato a trenta, quando il mondo era a portata di plettro; a sessanta e passa anni si può scoprire di avere la voce giusta, la voglia di salire sul palco e quel riflettore è puntato su te stesso; a sessanta passa anni Guido Elmi, uno dei più grandi produttori italiani, storico partner di Vasco Rossi, ha inciso il suo primo singolo, è uscito dall’ombra “per lasciare la mia impronta. Ho sentito la necessità di creare qualcosa di mio, con il mio viso, le mie rughe, la mia storia: lo specchio dei miei ricordi, sul quale ho riflettuto per vent’anni”.
Ha deciso di cambiare lavoro?
No, ci mancherebbe, questo impegno è a tempo perso, la mia professione resta la stessa. Però così ho un po’ di gloria personale, e non mi interessa neanche vendere dei dischi, il mio obiettivo è solo capire, riprendere un discorso interrotto nel 1981. Anno nel quale... Sono sceso dal palco, non ce la facevo, mi prendeva l’angoscia, una sorta di ansia da prestazione, anche se non cantavo.
In questi anni non ha più suonato dal vivo?
Sì, ma piccole cose, e solo percussioni o chitarra, mai in prima persona, in particolare con Zucchero e Dodi Battaglia. Eravamo Adelmo e i suoi Sorapis, ma ho partecipato solo all’inizio, quando era un gioco, me ne sono andato nel momento in cui hanno voluto impegnarsi seriamente.
Oggi cosa le hanno detto gli amici?
Sono stupiti, neanche ci credono, poi quando ascoltano il pezzo, gli piace. Non sapevano che da anni covavo questo progetto.
Così, pure Vasco?
Lui mi ha detto: “Ah, ti metti a cantare...” Sì, ho delle cose da dire, voglio farlo. “Hai ragione”...
Non si è scocciato?
Non credo, l’importante è non cambiare la qualità del lavoro con lui. Anzi: ora mi sento anche più tranquillo e motivato, più carico, più libero.
Il ruolo di produttore non era abbastanza?
In Italia il mio lavoro non è molto capito e apprezzato, pensano solo che sei un amico dell’artista, mentre negli Stati Uniti sei considerato quasi alla pari del cantante. Insomma, alle volte ti senti un imbucato, uno non riconosciuto. Così ho detto: va bene, provo a fare l’artista.
Quanti la cercano per poter entrare nel mondo della musica?
Alcuni, ma rispondo sempre: “Non sono un talent scout, non sono un impresario, sono un produttore, uno che confeziona dischi”. Non investo. Non scopro. Quando ho conosciuto Vasco, aveva già pubblicato Albachiara.
Lei resta Guido Elmi.
Però ascolto prevalentemente musica statunitense e inglese, quindi non so sempre riconoscere il valore di artisti come Ligabue, Zucchero o Carboni: tutti cantanti che un tempo sono passati da casa mia. Eppure non li ho capiti, non mi interessava quel tipo di musica.
Gigi D’Alessio ha detto al Fatto : “A Napoli non siamo in grado di collaborare, mentre a Bologna sono bravissimi a creare sinergie”.
A Bologna siamo tutti amici, ma ognuno ha la sua parrocchia, il suo orto, quindi non è proprio vero, mentre i rapporti funzionano meglio tra produttori, e in Emilia ce ne sono molti e molto bravi.
Lei è laureato in Scienze Politiche, ha partecipato al ’68?
Eccome! Ero nel gruppo con Stefano Bonaga e Bifo (Franco Berardi) e all’inizio mi sono anche iscritto al gruppo maoista. Ma allora ci conoscevamo tutti, magari di giorno ci picchiavamo con i fascisti, mentre la sera tutti all’osteria, tavoli separati per carità, ma stessi luoghi. Altra storia Roma.
Che tipo di storia?
Sono arrivato nel 1978, l’anno del rapimento Moro, tra posti di blocco, città deserta la sera e continue discussioni politiche. Ma il mio obiettivo era studiare le percussioni; e poi ero innamorato di una ragazza.
VASCO ROSSI ALLE PROVE DEL NUOVO TOUR
La vita di allora?
Di gruppo, tra musica, sesso, canne, chi arrivava e chi partiva.
Perfetta iconografia di quegli anni...
Abbastanza. Un casino, sei mesi fantastici, anche se certe esperienze le avevo già vissute nel ’68 bolognese.
Vasco ha detto: “In teoria quelli della mia generazione dovevano morire negli anni Ottanta”.
E ci sono andato molto vicino: dal ’79 all ’86 ci ho dato talmente dentro, che dopo ho passato due anni tra ospedale e ricovero a casa. Sono stato malissimo. Ma nel ’78 chi era e chi voleva diventare? (Si ferma. Riflette. Aggrotta la fronte, le rughe lo segnano, e sembra amarle. Per qualche secondo perde anche il suo sorriso cordiale). Non lo so, ero confuso, tutto è cambiato l’a nno dopo, quando ho conosciuto Vasco e ho capito che avrebbe avuto successo.
Lei ha prodotto “Colpa d’Alfredo” e a un certo punto Vasco canta: “È andata a casa con il negro la troia”. Forse oggi non sarebbe consentito pronunciare certe frasi.
Allora si percepiva l’ironia, oggi è tutto più difficile, c’è la Lega, l’immigrazione, si incazzano su ogni cosa. La canzone era riferita al deejay, era chiaro che dietro c’era una questione di invidia del pene.
Però c’è un dato: con Vasco ha avvertito il quid, con Ligabue e altri no.
Forse perché avevo già lui, forse perché quando hai un sogno, e vuoi realizzarlo, è meglio concentrarsi su una persona sola. Oh, all’inizio è stata un’avventura molto faticosa.
Nihil difficile volenti.
Infatti avevo in testa un obiettivo chiaro, quello di arrivare, quindi tutto andava bene: i primi tempi abbiamo toccato le 250 serate l’a nno, pur di stare sul palco suonavamo anche a zero lire. E questo ha funzionato.
Il sogno lo ha raggiunto?
Sì, ma tramite lui, ora vorrei da solo.
Dopo il disco, anche il tour?
Non è detto, vediamo, oggi come oggi non reggerei sul palco più di quattro o cinque canzoni, ma la questione non è solo fisica, resta l’aspetto emotivo. Se mi vuole chiedere a chi mi ispiro, le rispondo subito Leonard Cohen, Nick Cave e Paolo Conte. I miei sono pezzi da suonare in piccoli club, luoghi fumosi.
Ha lavorato anche con Alberto Fortis.
Un disco solo e perché mi hanno cercato.
Non ha il tono di chi ne è orgoglioso.
Forse Alberto è di famiglia ricca, non ha bisogno di lavorare: durante la promozione dell’album è sparito per un’esperienza negli Stati Uniti dentro una riserva di Navajo. Però il disco non era male, ma uscito nel momento sbagliato, con sonorità anni Ottanta nel momento in cui esplodeva il grunge. Ed è cambiato il mondo.
Non ama i suoni arrivati da Seattle?
È una enorme bufala con qualche eccezione. E ha bloccato la musica per dieci anni: allora bastava indossare una camicia a scacchi, assomigliare ai Nirvana, per poi venir ascoltati. Aspetti, le faccio sentire gli altri pezzi del disco, quelli ancora inediti. (Elmi collega le cuffie all’Ipad, e improvvisamente i suoi toni diventano più incerti. Ci tiene. Si coccola i brani, e come davanti a un esame, precisa: “Però non sono perfetti, i ritornelli non vanno bene, la voce è una traccia. Si sente ben e? ”)
Cosa direbbe al Guido di allora?
Di non correre così, di pensare ad avere un figlio. Ma un tempo non volevo perdermi niente. E invece...
Ha corso tanto.
Sì, e ho buttato all’aria molte storie. Ma almeno questa, di storia , la voglio recuperare.
Twitter @A_Ferrucci