VIDEO-SELFIE DI BALOTELLI SULLA TRAGEDIA DI PARIGI
Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
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E’ finalmente chiaro perché una decina di fanatici suicidi hanno sparso terrore e morte a Parigi venerdì sera. Per consentire al pubalgico e nostalgico Balotelli di farsi un videoselfie in cui domanda al mondo visibilmente offeso, lui, non il mondo: “Ma perché non siamo tutti una famiglia? Perché non c’è pace in questa terra?”.
Recita il ragazzone a favore di sé, la fissità dell’ebete natalizio, tempestato di diamantini da un lobo all’altro del suo pianeta. Non abbiamo bisogno del kamikaze. Da disintegrabili coglioni ci facciamo a pezzi da soli premendo il tasto di uno smartphone.
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In attesa che il califfo in persona dia una risposta credibile al ragazzo, la vanità dei social trae alimento irresistibile dalle disgrazie di massa. Un chiacchiericcio senza fine è il gas letale di una tragedia che, invece di cercare ispirazione nel rumore del silenzio, accoda, tweet dopo tweet, la vanità inesauribile del gregge in modalità lutto. Variabili straziate e forcaiole. Da Balotelli a Gasparri.
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Anonymus indossa almeno una maschera. Tavecchio usa invece la sua di faccia. Non ha bisogno d’altro. E se fosse questa la nostra debolezza? La smania d’essere visibili. Al cospetto di un nemico invisibile, che non si sa quando, non si sa dove e come, non si sa bene perché. Noi ci teniamo a firmare i nostri peccatucci di narcisismo, i nostri compitini edificanti, terrorizzati di non essere identificati. “Non ci sono parole”, digitano in tanti versando fiumi di parole.
Il calcio, nel frattempo, è entrato anche lui nel gioco del massacro. Si diletta in queste ore nel dilemma, da Londra a Berlino: gioco o non gioco? Must go on o must go no? Interrogandosi incredulo sul sacrilegio d’essere stato sfiorato a Parigi dalla turpitudine del terrorista. Strade, chiese, teatri, musei, ristoranti, discoteche, alberghi, redazioni, perché non gli stadi?
Tanto più che Abu Bakr al-Baghdadi, il volto del demonio, l’uomo che brucia vivi i nemici, sfregia i cristiani e turba Balotelli, ama il calcio. Sognava di diventare Maradona, quando non recitava il Corano o non pregava nelle moschee. Aveva quindici anni quando el pibe stordiva gli odiati inglesi con un dribbling che non ha mai finito di esistere. “Diego” era il nickname che gli avevano dato i compagni di carcere a Camp Bucca, nel sud dell’Iraq, per i suoi numeri da calciatore. Era già un guerriero islamico con attitudini al comando quando i compagni lo chiamavano “il nostro Messi” per le sue giocate nel cortile della moschea di casa.
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In assenza di Chaplin, l’idea di un film per Wes Anderson, l’incontro che salverà il mondo nel cerchio di un qualsiasi centrocampo tra l’autistico Messi e il paranoico Baghdadi, che palleggiano insieme, uniti nella religione del pallone.