LA VENEZIA DEI GIUSTI - ARRIVANO I NOSTRI! TRE BUONI FILM ITALIANI A VENEZIA TRA IMMIGRATI E CARTONI ANIMATI (NAPOLETANI)

“La mia classe” di Daniele Gaglianone racconta il prof (Valerio Mastandrea) alle prese con gli immigrati - “Piccola Patria” di Alessandro Rossetto scandaglia la pancia del profondo nord - “L’arte della felicità” di Alessandro Rak è un gustoso film d’animazione partenopeo…

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Marco Giusti per Dagospia

PICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTOPICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTO

Yabbadabbaduuu!!! Arrivano i film italiani. Forti del successo di critica di Via Castellana Bandiera di Emma Dante, si fanno avanti ben altri tre film italiani divisi in varie sezioni. Molto diversi, magari anche interessanti, ma come ha ben detto Alberto Barbera, un tantino "raffazzonati".

PICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTOPICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTO

E' il cinema nato dopo la chiusura di Medusa verso ogni film d'autore e la decisione che si potrà produrre solo Zalone-Brizzi-Genovese per non perdere più una lira, la crisi di Fandango, pronta solo a capolavori sicuri come la vita di Oriana Fallaci scritta da Rulli e Petraglia e diretta da Marco Tullio Giordana (aiuto!), la conversione di Cattleya verso il comico di Siani e Bisio.

LA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONELA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONE

Al posto delle attrici di Medusa che ritornavano in ogni film, delle Aurora Cossio o Isabelle Adriani, abbiamo oggi il miele e il vino del Trentino e del Friuli. Magari un pullman friulano che arriva ogni tanto. Piccoli produttori che non riescono a chiudere i film e dominio assoluto di Film Commission regionale che puntano a un cinema da sottotitolo per un pubblico locale, spesso più invasive delle ragazze di Medusa, di solito isolate in piccoli ruoli. Vediamo in dettaglio.

PICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTOPICCOLA PATRIA DI ALESSANDRO ROSSETTO LA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONELA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONE

La mia classe di Daniele Gaglianone.
Giornate degli Autori. Certo, si sa, con la scuola in Italia, dai tempi di Scuola elementare di Lattuada fino a Pierino non si rischia mai. Specialmente se si presenta il film a settembre, al rientro dalle vacanze. Non prendiamo però sottogamba La mia classe di Daniele Gaglianone e i suoi protagonisti, Valerio Mastandrea come maestro e come Valerio Mastandrea attore, e la classe composta da verissimi extracomunitari che devono studiare l'italiano se vogliono rimanere da noi.

L'idea dei due soggettisti Gino Clemente e Claudia Russo, provenienti dalla tv, che poi hanno sceneggiato il film assieme a Gaglianone, è semplice. Raccontiamo la nuova Italia con questa specie di reality. Una classa di persone vere provenienti da tanti paesi diversi sono chiusi in una classe di scuola e un maestro italiano farà loro esprimere sentimenti, sogni, rimpianti, speranze che riguardano la loro e la nostra vita. Meglio dei reality coi principi, gli attori bolliti e le papi girls.

LARTE DELLA FELICIT DI ALESSANDRO RACKLARTE DELLA FELICIT DI ALESSANDRO RACK

Ma, a un certo punto del film, la realtà cambia le carte della scena, e la distanza dalla fiction non esiste più, magari fosse mai davvero esistita. E il film scompare, o si ibrida, Mastandrea, che dovrebbe interpretare un maestro, come quello di Vittorio De Seta, gravemente ammalato, è il primo a rinunciare alla sua storia e al suo protagonismo per fare entrare la realtà dei ragazzi che ha di fronte.

E tutto il progetto, con la forza delle persone vere, prende il sopravvento sul film, che inizia a destrutturizzarsi. Forse fin troppo coscienti dell'operazione, forse anche indirizzati a questa scelta per mancanza di fondi, forse sinceramente colpiti dagli avvenimenti, regista e troupe rivedono il loro film, entrandoci dentro, rimontandolo con la loro presenza in campo e ne fanno un'altra cosa.

Quel che viene fuori non è un semplice film, che aveva un suo giusto percorso, ma qualcosa che lo spinge all'esplosione della sua macchinetta narrativa. Sono i ragazzi a prendere la scena, a mostrare la realtà di un paese che nessuno sembra più né conoscere né descrivere al cinema e in tv. Ma, stavolta, è probabilmente, la superiorità narrativa del linguaggio televisivo rispetto a quello del nostro cinema, che funziona di più e meglio del vecchio cinema dai buoni sentimenti alla Fandango.

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Scordiamoci il non riuscito Ruggine, che Gaglianone aveva portato a Venezia qualche anno fa con poca fortuna. Qui siamo in un altro mondo. Mastandrea, che seguita a ripetere il suo ruolo di educatore morettiano, è al suo meglio. E tutti i ragazzi non sono solo meravigliosi e scelti e seguiti con amore. Hanno la qualità di illuminare la scena come delle star. Terribilmente più vanitosi e più attori degli attori. Ma finalmente si parla di qualcosa di vivo.

Piccola Patria
"Foresti de merda!" Ci siamo. Eccoci nel profondo Nordest italiano. Peggio del Texas di Cormac McCarhty. In Piccola patria, presentato nella sezione Orizzonti, opera prima di fiction di Alessandro Rossetto, celebrato documentarista cinquantenne (ha girato anche un discusso film su Feltrinelli che ha avuto non poche noie), sceneggiato assieme alla scrittrice Caterina Serra e allo specialista di sfighe italiane da terzo mondo Maurizio Braucci (Gomorra, L'intervallo), i nativi veneti, perennemente in mutande e canotta, piselli mosci, faccia cattiva e discorsi da indipendentisti da festa di paese, si scontrano appunto con i "foresti", albanesi, cinesi, marocchini.

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Ascrivendo a loro, come in ogni film sul razzismo paesano, ogni responsabilità dello stato comatoso in cui vivono, incapaci della minima reazione in un paese da anni a rotoli, pensano che la reazione sia armarsi e sparare. Non si sa bene a chi. Ma i foresti, sono ormai più integrati di loro nella comunità, sono visti con occhi diversi dalle ragazze del posto e da questa situazione, padri razzisti, figli e figlie disposti a aprirsi, non ci sono tante vie d'uscita.

O violenza o convivenza. Piccola patria punta l'occhio su due ragazze, due uomini in crisi, due donne depresse. Le due ragazze, Luisa e Renata, interpretate dalle fenomenali Maria Roveran e Roberta Da Soller, si alleano per spillare soldi a un depravato del posto, Rino Menon, interpretato da Diego Ribon, impotente con voglie di sesso. Lo mettono in mezzo con delle fotografie scandole e gli chiedono soldi, coinvolgendo nell'affare, a sua insaputa, anche il bravo ragazzo albanese di Luisa, Bilal, interpretato da Vladimir Doda.

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I due uomini sono appunto il Rino, con sorella che gli perdona tutto, e il rozzo padre di Luisa, Franco Carnielo, interpretato da Mirko Artuso, che passa giornate seduto in mutande sul divano, non paga le tasse, litiga con la moglie, odia i foresti e non riesce a parlare con la figlia. Le due donne depresse sono infine la moglie di Franco e la sorella di Rino, interpretate da Lucia Mascino e Nicoletta Maragno.

Attorno a questo nucleo di sei personaggi, ai quali si aggiungano il ragazzo albanese e i suoi amici e un vecchio bizzarro, un Giulio Brogi che un tempo fu l'Enea televisivo e oggi a stento riconosciamo, si muove tutto il film. Costruito più per immagini, montaggio e musica che per un vero e piano racconto.

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Rossetto punta alle invenzioni visive, fotografando questo entroterra veneto come fosse un entomologo, ma aprendo poi a cori mistici, a canzoni, composte e eseguite dalla stessa protagonista Maria Roveran, che rivelano un notevole talento. Come in Salvo e in L'intervallo, due tra i migliori esordi degli ultimi tempi, si cerca di fare un cinema linguisticamente internazionale e riconoscibile, e al tempo stesso fortemente concentrato su mini mondi marginali di un'Italia da terzo mondo.

Diciamo, grossolanamente, che il modello è Gomorra di Matteo Garrone, cioè la finestra su un mondo sconosciuto raccontato però con immagini da cinema d'autore che sfruttano la forza dei posti e dei set e la verità dei protagonisti. Diciamo anche certo film messicano, costruito con pochi dialoghi e grande ricerca figurativa, come in Reygadas.

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Ma Rossetto, come Di Costanzo, autore di L'intervallo, non è un giovane esordiente. E' un signore che ha alle spalle una vasta esperienza di costruzione di immagini. Se superate un minimo un po' di angoscia che provoca la storia e questa ambientazione miserabile, Piccola patria è una bella e ricca sorpresa e la dimostrazione che in questi ultimi vent'anni, anche se poco si è visto, molto si è studiato e provato. E il cinema italiano, quello d'autore almeno, da qui potrebbe anche ripartire.

L'arte della felicità di Alessandro Rak.
Di fronte a un lungometraggio animato italiano "adulto", ideato e realizzato all'interno di una nuova realtà produttiva cinematografica napoletana, come quella della Med di Luciano Stella, una vera e propria factory che ha già fatto uscire in tv un più tradizionale La cantata dei pastori di Nicola Barile e sta concludendo il documentario Lo sposo di Napoli, appunti per un film su Achille Lauro di Giogiò Franchini, non possiamo che dirci felici.

LA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONELA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONE

Sia della scelta della tecnica, un film animato per raccontare la crisi profonda di un musicista quarantenne napoletano di fronte alla morte del fratello, da anni diventato buddista e rifugiato in Nepal, sia, in gran parte del risultato. Perché con tutti i difetti consueti di un'opera prima, inoltre di un'opera prima "difficile", L'arte della felicità diretto da Alessandro Rak, scritto e prodotto, assieme a Rai Cinema e al Luce, da Luciano Stella, che lo ha dedicato al fratello Alfredo, presentato a Venezia alla Settimana della Critica, non è né un film banale né un film non riuscito rispetto alle proprie ambizioni.

E' un lungo, elaborato e intelligente esperimento di film d'autore animato, molto giocato su musiche originali di Antonio Fresa e Luigi Scialdone, con tematiche forti e molti aspetti mistici che non piacerà a tutti, ma non ci lascia indifferenti. Tutto si svolge in una Napoli fredda, piovosa e piena di munnezza. E' lì che si muove col suo taxi il quarantenne barbuto Sergio, già musicista assieme al fratello Alfredo, lui suonava il piano e il fratello il violino. Ma Alfredo non c'è, gli ha spedito una lettera, che Sergio non ha ancora aperto. O, forse, non vuole aprire.

LA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONELA MIA CLASSE DI DANIELE GAGLIANONE

Perché è turbato e non riesce bene a decifrare cosa è reale e cosa non lo è. A cominciare dai clienti del suo taxi, che lo rimandano a memorie lontane o a affrontare realtà che pensa di aver superato. Un po' pippone mistico sulla felicità e sul superamento dell'idea della morte, il film ha le sue parti migliori proprio nella costruzione di una Napoli cruda e vitale fatta di suoni, odori e personaggi diversi. Lì Rak riesce meglio a sviluppare un racconto non sempre facile da smaltire.

 

 

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