LA VENEZIA DEI GIUSTI - FISCHI E APPLAUSI PER “PIUMA” DI ROAN JOHNSON, SECONDO FILM ITALIANO IN CONCORSO, COMMEDIA GIOVANILE TARGATA SKY TUTTA GIRATA A ROMA EST - I CRITICI SI ACCAPIGLIANO, MEREGHETTI URLA: “E’ UNA MERDA” - I PIU’ GIOVANI LO DIFENDONO: E’ ANCORA FRESCO IL CASO DELLA BOCCIATURA DELL’ANNO SCORSO DI ''JEEG ROBOT'' - -

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Marco Giusti per Dagospia

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Patatrac! Stamane alla proiezione stampa i critici si sono accapigliati per il secondo film italiano in concorso, Piuma di Roan Johnson, commedia giovanile targata Sky tutta girata a Roma Est, sulla Casilina, con Mereghetti che urlava “è una merda!” ritenendolo non abbastanza autoriale, Tatti Sanguineti perplesso, i critici più giovani che lo difendevano perché non si possono penalizzare le commedie divertenti, portando così in primo piano il problema centrale di questa Venezia.

 

La difficile convivenza, cioè, fra il vecchio modello di Festival coi film d’autore e quello più nuovo di Festival allargato anche a film o più di genere o più leggeri.

 

E’ ancora fresco, inoltre, il caso della bocciatura dell’anno scorso di Jeeg Robot, che ha rilanciato il Festival di Roma, dove forse Piuma avrebbe avuto una platea più giusta.  Il problema, a parte Piuma, che non ho visto e appena lo vedo vi dico la mia, è la mancanza di linea delle scelte della commissione di selezionatori veneziani.

 

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Ovvio che ci sia un po’ di tutto, ma mentre Marco Muller, così odiato da Baratta&Aspesi, aveva chiaro il disegno generale dei film in concorso e del processo culturale che portava avanti, con la presenza di santi come Tarantino o David Lynch, adesso, proprio dopo i festival eccessivi di Muller, questo disegno non mi sembra che ci sia. E non è facile far convivere assieme l’ultimo Wenders, il film di Escalante, Piuma di Roan Johnson e Young Pope di Sorrentino. Certo che i film italiani sono da sempre un problema, perché o vanno a Cannes o non ci sono. E allora tocca inventarli. E a Muller stesso andò malissimo con la fantascienza di Gipi, ricordate?

 

Ma il non aver portato a Venezia Jeeg l’anno scorso (nessuna sezione lo volle), che è il grande film che sarebbe servito a Muller, e da quella esperienza della Venezia tarantiniana nasce, pesa parecchio. Proprio quest’anno, inoltre, che vede i tre film italiani in concorso così lontani da loro e forse poco attinenti col resto del cinema internazionale. Al punto che, personalmente, avrei scelto Indivisibili di Edoardo De Angelis, più originale, più innovativo, più jeeghiano. O avrei cercato di avere o Sydney Sibilia o Pif. Magari rischiando.

 

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Detto questo, vi segnalo nella sezione “Orizzonti” il bel successo del forte e commovente Il più grande sogno di Michele Vannucci, opera prima, 29 anni, interamente costruito sulla vera storia di Mirko Frezza, coatto purissimo, che ha interpretato se stesso e la sua lotta per non ricadere, nella violenza da strada, nello spaccio e quindi rifinire in galera. Mirko, grosso, leader della comunità malavitosa, riesce anche a farsi eleggere come presidente di circoscrizione e a mettere in piedi una sorta di sua cittadella ideale per gli abitanti del quartiere.

 

Vannucci ha seguito per tre anni il suo protagonista e lo ha poi riportato in scena seguendo una sceneggiatura scritta assieme a Anita Otto, mischiandolo a veri attori, l’Alessandro Borghi che fa l’amico Boccione, ex-spacciatore redento, Vittorio Viviani che fa il padre malavitoso, le ragazze Milena Mancini, Ivana Lotito.

 

Mirko dovrà scegliere se continuare sulla buona strada, più difficile, più faticosa, proteggendo la sua famiglia, sua figlia, un’altra che deve nascere, la sua donna, o tornare alla vecchia strada per mantener fede al suo codice di duro. E quindi sparare e tornare in galera.

 

La sua testa è fatta così, gli dice il padre. L’ambientazione, come in Piuma, è puro Jeeg, ma l’idea di cinema di Vannucci è del tutto diversa, visto che segue il suo protagonista Mirko quasi sempre di spalle, come in un film post-dardenniano, ma anche come se fossimo in una docu-fiction o in documentario alla Gianfranco Rosi. Anche se a volte la bella musica di Teho Tehardo sottolinea troppo i sentimenti dei protagonisti, e la fotografia della Roma dei quartieri pecca di qualche estetismo, la forza di Mirko e degli attori impegnati nel film e l’assoluta sincerità del regista rendono questo Il più grande sogno qualcosa di più di un’opera prima riuscita.

 

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Non è sbagliato parlare di nuovo realismo del cinema italiano, come ha fatto Conchita De Gregorio stamattina, anche se questo realismo alla fine, tutto ambientato nella Roma dei quartieri, è già un genere ben preciso, dove rientra perfettamente Jeeg, ma forse non Non essere cattivo di Claudio Caligari, che è una sorta di filiazione pasoliniana e cittiana. Mentre qui, come in Suburra e Jeeg, non si sente più Pasolini, ma, come ha scritto benissimo Alberto Piccinini, la lunga ombra dei cannibali capitanati dall’Ammaniti di L’ultimo capodanno dell’umanità portato al cinema da Marco Risi quindici anni fa.

 

In qualche modo, quindi, Non essere cattivo è l’ultimo film di una generazione pasoliniana, mentre il vero modello primordiale è quello di Ammaniti-Risi che mischiava al realismo una sorta di follia e di fantasia che ci ha portato all’esplosione di Jeeg e, nel fumetto, alle tavole di Zerocalcare. Il problema di questi film, e lì forse c’è una qualche grossa affinità con Non essere cattivo, è l’idea di una spazio-galera, il quartiere o Ostia, dal quale non si può uscire. La gabbia di tutti questi nuovi film, però, oltre a essere reale, pura scenografia e funzionale alla messa in scena, è anche una buona metafora, forse inconscia, per la fuga dal realismo o neo-neorealismo.

 

Nessuno di questi film romani, ma penso anche all’ottimo Indivisibili, riesce a rompere la barriera del realismo che schiavizza da sempre il nostro cinema nella dimensione rosselliniana-desichiana anche se si parla di supereroi o di gemelle siamesi. La tensione, però, che sentiamo nel desiderio di rompere questa gabbia, porta a una crescita creativa, alla voglia di esplodere verso il non-realismo. E è questa tensione che va seguita e indirizzata nel nostro cinema.

 

Non siamo ancora arrivati, cioè, all’esplosione dei generi, come accadde al tempo degli spaghetti western negli anni ’60, il nostro caso più eclatante e universalmente riconosciuto di fuga dalla messa in scena realistica per la costruzione di un cinema totalmente di artigianato e di stile dove far vivere anche metafore sulla realtà italiana (il’68, la politica…), ma ci siamo molto vicini.

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