Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”
Professor Remuzzi, a che punto siamo?
«Le cose in Italia vanno piuttosto bene, al momento. Ma da Sars-CoV-2 ci si può aspettare di tutto, e se incontrate qualcuno che ha delle certezze, non credeteci».
Esiste una definizione precisa di «fine della pandemia»?
«No. Finché il virus non sarà sotto controllo non possiamo farci illusioni. Se si riesce a confinarlo in certe aree non è più pandemia, ma epidemia. Non dimentichiamo che solo due volte nella storia le malattie virali sono state completamente eradicate: il vaiolo e la peste bovina. E in entrambi i casi c’è stata una vaccinazione massiva di tutto il mondo. È comunque raro che una epidemia finisca del tutto, perché i virus comunque rimangono negli animali e continuano e mutare».
La mascherina serve ancora?
«Presto potremo toglierla in certe situazioni. Ma non al chiuso se non c’è adeguata areazione, e neppure all’aperto se si è in tanti e si urla, come succede quando si festeggiano le vittorie sportive. Andare allo stadio è un conto, creare assembramenti dove ci si abbraccia è un altro. Insomma, il virus è ancora con noi, la pandemia non è finita».
Quando potremo sentirci tranquilli?
«Quando ci avvicineremo al 90% di vaccinati, compresi giovani e bambini».
Cosa pensa di quelli che gli adolescenti non si ammalano e allora perché vaccinarli?
«Non dimentichiamo che solo negli Usa dall’inizio della pandemia ci sono stati 5 milioni di contagi tra i giovani. Ventimila di questi ragazzi hanno avuto bisogno dell’Ospedale, 460 sono morti».
Ma i bambini?
«È un tema del quale si discute in quasi ogni famiglia. Due cose. La prima: la pandemia finirà quando avremo vaccinato anche i bambini, perché anche loro possono ospitare il virus. La seconda: il vaccino per i bambini sotto i 12 anni non è ancora stato approvato anche se sappiamo che è sicuro e funziona. Ma entro la fine dell’anno avremo molti più dati sia da Pfizer che da Moderna».
Stessa quantità di RNA che per gli adulti?
«In quello dei bambini sarà diversa. Molto probabilmente si faranno due somministrazioni di dieci microgrammi a distanza di tre settimane: il loro sistema immunitario non è quello degli adulti».
Anche se molti studi recenti dimostrano che non trasmettono il Covid così facilmente?
«Uno studio scozzese, un altro pubblicato sul British Medical Journal, i risultati recenti di una ricerca su 90.000 bambini del North Carolina dicono in buon sostanza la stessa cosa: la contagiosità dei bambini è molto bassa».
Allora che senso ha vaccinarli?
«In realtà non c’è un approccio che vada bene per tutti. Da noi vaccinare i bambini piccoli potrebbe non essere ancora una priorità. Ma in altre parti del mondo i bambini si ammalano e muoiono. In Brasile ne sono morti 900 sotto i cinque anni, su 467.000 morti in totale. In Indonesia, nuovo epicentro della pandemia, sono morti centinaia di bambini di coronavirus nelle ultime settimane, molti di loro sotto i 5 anni. L’aumento della mortalità infantile coincide con l’aumento della circolazione della variante delta, che ha attraversato il Sudest asiatico. Qui i tassi di vaccinazione sono bassi».
Perché muoiono così tanti bambini in Brasile e in Indonesia?
«Non lo sappiamo. Potrebbe essere a causa delle varianti, più pericolose del virus originario, che potrebbero anche sfuggire agli anticorpi prodotti dall’infezione o dalla vaccinazione. Le certezze con il SARS-CoV-2 sono sempre relative al momento in cui si parla e all’ambiente di cui si discute. Anche per questo, vaccinare i bambini potrebbe diventare molto importante».
Cosa manca ancora?
«L’epidemia non finirà finché non saremo capaci di vaccinare tutti, ovunque. Se continuiamo a guardare solo a noi, non se ne uscirà. Bisogna mettere insieme tutta la tecnologia disponibile in ciascun Paese per avere conoscenze e impianti capaci di sviluppare vaccini sempre più sofisticati per poter vaccinare il mondo intero. Serve una collaborazione maggiore fra tutte le compagnie biotecnologiche, dovunque si trovano. Anche le agenzie regolatorie dei Paesi emergenti vanno rese più efficienti».
Alla fine, quante dosi?
«Non è escluso che la vaccinazione si debba fare ogni anno. Ma tra quella per il coronavirus e le altre che facciamo sempre e comunque, a un certo punto si riuscirà e bloccare le manifestazioni più gravi della malattia».
Come cambieranno i vaccini?
«Il futuro sarà pieno di belle sorprese. Ci saranno vaccini con mRNA “policistronico”, come dicono gli scienziati, che contengono cioè informazioni nella regione codificante, capaci di produrre più proteine contemporaneamente, e il virus farà molta più fatica a sfuggire attraverso le mutazioni. Ci sarà un vaccino solo contro l’influenza e molti virus dei pipistrelli: gli scienziati americani avevano già sottoposto qualche anno fa un progetto del genere all’NIH. Era piaciuto ma non è stato finanziato perché all’epoca sembrava non ci fossero coronavirus capaci di creare epidemie globali».
A quando un ritorno alla normalità?
«La stessa domanda è stata fatta negli Usa a 723 epidemiologi. Hanno risposto all’unisono: se si riapre tutto senza una percentuale molto alta di vaccinati, continueranno ad esserci focolai di virus. Sia da loro che in qualunque altra parte del mondo».