Stefano Montefiori per www.corriere.it
L’anno 2022 è stato il più caldo mai registrato in Francia, almeno da quando nel 1900 si è cominciato a rilevare le temperature. L’annuncio ufficiale di Méteo France, ampiamente previsto, arriva dopo un’estate di incendi e siccità, e nel pieno di un inverno talmente mite che i cannoni per la neve artificiale non riescono a fabbricarla, perché non fa abbastanza freddo. Tanto che aumentano le voci di chi invita a pensare a una transizione economica delle stazioni sciistiche, che tra vent’anni potrebbero non contare più su uno degli sport preferiti dei francesi.
La fine dello sci è un’eventualità che comincia a essere presa in considerazione. La temperatura media annua è stata di 14,5°, ben più alta dell’anno finora più caldo, il 2020 con 14,07°. «Tutti i mesi dell’anno sono stati più caldi del normale, ad eccezione di gennaio e aprile», indica Météo France. In estate si sono registrati 33 giorni di ondate di calore. L’agenzia pubblica indica poi una eccezionale quantità di sole nella maggior parte delle regioni, il più delle volte superiore al 15% e con numerosi record, in particolare nella metà settentrionale del Paese.
Rennes, ad esempio (capoluogo della Bretagna proverbialmente piovosa, ndr) ha registrato 2.088 ore di sole nell’ultimo anno, rispetto a una media di 1.761 ore all’anno nel periodo 1991-2020. In questo contesto, la stagione sciistica incontra enormi difficoltà, non solo in Francia.
Dopo che la Coppa del Mondo di sci è stata rinviata di un mese con l’annullamento delle gare di Zermatt (Svizzera) e Lech (Austria) a causa delle «temperature anormalmente elevate», a fine dicembre le gare della Coppa di Francia di sci di fondo, che avrebbero dovuto svolgersi nell’Isère, sono state spostate all’ultimo momento nel Queyras, alla ricerca di un po’ di neve.
Metà delle piste da sci francesi sono state chiuse per mancanza di neve. Particolarmente colpite sono state le località di media montagna, tanto che su Libération la geografa Magali Reghezza-Zitt ha scritto un interessante intervento in cui invita a riflettere sull’inevitabile, obbligata transizione delle stazioni di montagna verso un altro modello economico, che non può più fondarsi sui cannoni sparaneve e la «neve di cultura», come viene chiamata in Francia la neve fabbricata dall’uomo (che non sarebbe “artificiale” ma naturale perché unicamente composta di aria e acqua). In sostanza, meglio smetterla di investire in impianti di risalita e in generale nello sci, che entro il 2050 probabilmente non potrà più essere praticato.
«Che ci piaccia o no, la neve artificiale è una risposta ingannevole se pensiamo che ci permetterà di mantenere lo status quo – scrive Magali Reghezza-Zitt -. Météo France prevede che un tasso di copertura del 45% di neve artificiale manterrà le condizioni di innevamento per i prossimi vent’anni. Passato questo periodo, con le attuali traiettorie di riscaldamento, i cannoni non basteranno più a compensare la riduzione della copertura nevosa naturale. L’innevamento consuma molta energia, parte dell’acqua evapora, e sarà una risorsa sempre meno disponibile.
Inoltre, la produzione di “neve di cultura” non funziona quando il clima è troppo mite: pochi giorni fa, la stazione di Les Rousses ha rinunciato ai cannoni sparaneve perché la temperatura necessaria di -3° non è stata raggiunta abbastanza a lungo per consentire la produzione di neve». Da un lato, alcune voci dell’industria turistica dello sci sottolineano che vent’anni non sono poi così pochi. «Lo sci non è morto! – dice Jean-Luc Boch, presidente dell’ANSM (Associazione nazionale dei sindaci delle stazioni di montagna) -. Nessuna industria può dire, come siamo in grado di fare noi, che il suo modello funzionerà ancora per venti o trent’anni».
Dall’altro, forse bisogna cominciare a pensare a un «dopo» che non è lontano, e che potrebbe arrivare anche prima del previsto, riorientando l’offerta turistica facendo meno dello sci. «Ascoltare chi è sul punto di perdere tutto non ha mai significato cadere nella demagogia del breve termine – scrive ancora Magali Reghezza-Zitt -. La storia delle miniere, dei cantieri navali e dell’industria tessile francese dimostra che l’atteggiamento business as usual condanna le attività, e gli uomini e le donne che ne traggono profitto. L’inazione devasta i territori più di qualsiasi calamità climatica. Sono le scelte di oggi a creare i disadattamenti di domani. Vent’anni sono pochi, ma sono più che sufficienti se cominciamo a riflettere adesso».