Nicola Pinna per "www.lastampa.it"
Luca non si chiama così, ma per raccontare questa storia c’è bisogno di immaginare un bambino reale. Non la vittima di un reato, come viene descritta col linguaggio gelido degli atti giudiziari. Un bambino dolce, con lo sguardo vispo, costretto a vivere in un tugurio e a subire botte da urlo ma sempre sorridente.
E persino convinto che quel poco che i genitori gli concedevano, cioè un piatto caldo e un bidone di plastica per fare i bisogni, fosse già sufficiente per dire ai carabinieri una frase che ha lasciato tutti disarmati: «Vivo così da tanto tempo ma tutto sommato sto bene».
Il dramma di questo ragazzino di 11 anni viene fuori per caso, di sabato sera, per lo scherzo fortuito di un telefonino di vecchia generazione. Uno di quelli dimenticati nei rispostigli e che fanno partire una telefonata di emergenza anche senza la scheda telefonica. La chiamata arriva alla centrale operativa dei carabinieri di Olbia intorno alle 21: «Scusate se vi disturbo, io sto solo cercando di chiamare mia zia. Ho bisogno di parlare con lei ma adesso sono chiuso in camera e questo cellulare non ha la scheda, dunque non posso chiamarla».
La verità è solo parziale e non comprende tutti gli orrori che Luca stava subendo da chissà quanto tempo. Il carabiniere che ha risposto alla sua chiamata ha capito al volo che dietro quella vocina dolce e sconfortata c’era un dramma tutto da approfondire. «Ho 11 anni e sono in casa da solo, non posso uscire dalla mia camera. I miei genitori sono andati a una festa».
A Porto Rotondo, nel cuore della Sardegna vacanziera più chic. Al party ovviamente il bambino non ci poteva andare e i suoi genitori (che ora sono finiti in carcere) avevano ben pensato di segregarlo. Nella sua cameretta trasformata in una specie di prigione. «Non c’era il letto e neanche la branda – racconta il tenente colonnello, Alberto Cicognani – La porta della stanza era sigillata ma senza maniglia. Allo stesso modo le finestre. Non poteva uscire in nessun modo».
La casa degli orrori era nascosta nella facciata elegante di una villetta della periferia di Arzachena, a due passi dalla Costa Smeralda. Un’abitazione normale: ben arredata, sempre ordinata. I genitori di Luca sono conosciuti in paese come persone perbene e benestanti.
Insospettabili e gentili, con un lavoro e uno stipendio fisso. Ma in realtà non amorevoli, verso quel bambino dolce e indifeso. Se è vero tutto ciò che i carabinieri hanno letto nel diario che il ragazzino aveva scritto nelle ultime settimane. «Ho segnato tutte le volte che mi hanno picchiato. Usano questo tubo di plastica, è nascosto sotto il divano».
I carabinieri lo hanno trovato, ben sistemato sotto i cuscini di un salotto elegante e apparentemente confortevole. Il luogo del supplizio per quel bambino che ora deve ringraziare i carabinieri se potrà iniziare una nuova vita lontano in una comunità, lontano da quella casa degli orrori.
Il padre e la madre ora sono in carcere, accusati di maltrattamenti in famiglia e di sequestro di persona. «Non sappiamo le motivazioni di questo accanimento – dice il colonnello Cicognani – Da tanti anni faccio questo lavoro, mai mi ero trovato di fronte a un dramma così toccante. Siamo felici di aver liberato il bambino da quell’orrore».