Walter Van Beirendonck Quirino Conti
Quirino Conti per dagospia
Non troppi decenni or sono – sufficienti però per fraintendere l’attendibilità del passato –, Pier Paolo Pasolini profetizzava come inevitabile un pubblico processo al partito dominante di allora, la Democrazia cristiana. Cosa che poi puntualmente avvenne, trascinando con sé per smottamento un’intera stagione politica.
E ora? Ora, appena risvegliati dall’imbecillimento indotto da un tempo di crudo mercato totale, come si fosse appena prima dell’assalto definitivo alle follie di Versailles (e poco prima che veri e propri infanti passino dallo stadio di pseudo-millennials-acquirenti a quello di social-logo-dipendenti), sarà bene che tutti, esperti e no, si chieda un nuovo e irrinunciabile processo catartico a tutto quello che oggi si dichiara Moda.
Un pubblico processo da celebrarsi magari in pompa magna anche questo a Milano, in modo da identificare da lì gli untori che per così tanto tempo hanno avvelenato alla sorgente la stessa identità di un mestiere gloriosissimo. Basta per documentarsi scendere due gradini – quello pensoso dell’acculturato e quello entusiasta del consumista – per arrivare nel lugubre sottosuolo del piccolo e mediocre borghese, così da scorgervi lo scempio che la Moda ha tossicamente indotto in quella inconsapevole e trasformista fascia sociale.
Totalmente inebetita da mostruosità estetiche e linguistiche. Con schierato di fronte a sé un intimidente drappello di addetti, usati dai media come ariete, o professionisti dello schermo. Unicamente per non perdere la mungitura pubblicitaria di un fenomeno in realtà del tutto ignorato e in nessun modo realmente apprezzato.
In quel tribunale sarebbe formativo interrogare sul tema i vari direttori di testate. Convintissimi tuttora che la Moda non sia altro che il prodotto idiota di una macchina per la seduzione esclusivamente inventata a uso di festival e occasioni videotrasmesse.
Se, poniamo, per pura follia dadaista, l’inviato riempisse quello spazio previsto con un resoconto di orari ferroviari, per loro sarebbe identico. Purché lo stilista fosse gratificato da qualcosa che comunque possa riguardarlo, in sfregio alla comprensione vera del fenomeno. Con il solito risultato utile a realizzare contratti pubblicitari sul nulla.
Mentre parallelamente il deliquio mistico del geniale ipersensibile stilista (chi con aria immusonita e coltissima, chi garrula e illetterata) diviene un profluvio di sciocchezze riferite in genere alla stampa dal solito Compagno Pensatore: molto ma molto ermetico, tanto che il resoconto è ridotto a un misero sensazionalistico elenco di reciproche incomprensioni.
Cosa dunque salverà l’innocenza di una professione in bilico tra oscurità e farsa? Un pubblico processo; e senza attenuanti. Un autodafé che restituisca l’onore a chi, Prada per esempio (e con lei pochi altri), sa di cosa si sta trattando.
Sul carro che conduceva alla ghigliottina Maria Antonietta c’era una vittima che già da tempo aveva gettato alle ortiche le perversioni del “Grande Stile”, appena convertita alla sana forma della foggia inglese (1783). Troppo tardi, purtroppo. Un po’ come ora.
Charles Jeffrey Loverboy Alexander McQueen Alexander McQueen
Chi riuscirà a salvare la Grande Meretrice? Forse che per un solo segnale di dignità autorale l’angelo vendicatore riporrà nel fodero la baluginante spada di fuoco? Perché l’ultima battaglia sarà ormai quella di resistere alle checcherie dilaganti con parole autorevoli, sensate e finalmente nuove. Prima che si arrivi all’epilogo.