Elisa Manacorda per “la Repubblica - Salute”
Quello che il virus Sars-CoV 2 lascerà dietro di sé, quando l'umanità avrà raggiunto il controllo della pandemia, saranno le macerie. Morti - almeno tre milioni oggi, tra quelli ufficiali e quelli sommersi - feriti (nel senso di persone che porteranno su di loro i segni della malattia ancora a lungo), e una crisi economica mondiale che non ha paragone a partire dal secondo dopoguerra.
Eppure. Quando si è toccato il fondo, si dice, non si può che tornare a galla, con una velocità tanto maggiore quanto più in basso si è arrivati. Così c'è chi si spinge a immaginare un futuro in forte ascesa, da tanti punti di vista. Sociale, innanzitutto, con un nuovo spirito di comunità, e la scoperta delle relazioni che davvero vale la pena conservare.
Culturale, se ci renderemo conto che sono necessari cambiamenti radicali del nostro stile di vita per evitare le crisi ecologiche prossime venture. Ma anche tecnologico, con le innovazioni introdotte, volente o nolente, nel lavoro e nella formazione. E scientifico, se è vero che il gigantesco sforzo globale per mettere a punto i vaccini contro il coronavirus ha mostrato quello che la ricerca può fare in campo medico quando ci sono finanziamenti e collaborazione.
E quello che alcuni studiosi prefigurano: una nuova età dell'oro simile a quella dei cosiddetti ruggenti anni Venti. Quando, dopo l'epidemia di Spagnola (e soprattutto una guerra mondiale, a dire il vero), il mondo occidentale si ritrovò certamente più povero ma con una nuova consapevolezza: la vita va vissuta finché c'è. E allora via alla musica jazz, i fermenti artistici, il fiorire dell'industria, i nuovi diritti politici (negli Usa l'apertura del voto alle donne risale per l'appunto al 1920), la voglia di gettarsi il passato alle spalle, compresa l'influenza con la sua scia di morte.
Tra chi ha ipotizzato un futuro simile anche dopo la pandemia di Covid-19 ci sono economisti, storici, sociologi, ciascuno con il suo punto di vista. Quello più interessante è forse quello di Nicholas Christakis, professore di Scienze sociali e naturali, Medicina Interna e Ingegneria biomedica a Yale, e autore di La freccia di Apollo.
L'impatto profondo e duraturo del coronavirus sulle nostre vite, la cui edizione italiana è uscita nel 2020 grazie al Pensiero Scientifico editore. Christakis è chiaro: nel mondo post-Covid immagina uno scenario diviso in periodi. Fino al 2022, ovvero nell'immediato periodo pandemico, gli americani continueranno a indossare le mascherine e a evitare i luoghi affollati.
Poi per alcuni anni, forse fino al 2024 se mai dovessimo raggiungere l'immunità di gregge o comunque dopo un'ampia diffu sione del vaccino, subentrerà il periodo pandemico intermedio, durante il quale dovremo cercare di riprenderci dalla batosta (sani-taria, psicologica, sociale, econo-mica) provocata dalla pandemia.
Ma prima o poi le cose dovranno tornare alla "normalità": sarà il periodo post-pandemico. E qui capiremo se la storia del secolo scorso ha davvero qualcosa da insegnarci: «È probabile - dice infatti Christakis - che il consumismo avrà un ritorno di fiamma, perché i periodi di austerità provocati dalle epidemie sono spesso stati seguiti da periodi di spese maggiori».
È anche verosimile che, come avvenne dopo la pandemia del 1918, una certa tendenza alla riflessione, caratteristica della fase pandemica, lasci il posto a un maggiore desiderio di correre dei rischi, a una ritrovata gioia di vivere. Persino a comportamenti sessuali più liberi, estremi. «Dopo una grave epidemia, inoltre, le persone spesso provano non solo un rinnovato senso di scopo, ma anche un rinnovato senso di potenzialità», spiega il sociologo.
Dunque possiamo aspettarci di vedere simili innovazioni tecnologiche, artistiche e persino sociali anche dopo la pandemia attuale, che rifletteranno per esempio gli effetti a catena dovuti al fatto che molte persone hanno lavorato da casa. Il pensiero di Christakis, come è ovvio, è articolato e complesso, ma il senso è chiaro: la vita tornerà, ma non potrà più essere quella di prima. D'altra parte il coronavirus ha di fatto accelerato fenomeni già in atto nelle nostre società, non soltanto per esempio favorendo il trasferimento sul digitale di funzioni e servizi prima in presenza, ma anche ampliando il fossato tra le classi sociali, rendendo sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri. Scrive l'Economista un quarantenne ispanoamericano ha un rischio di morire per Covid dodici volte superiore a quello di un americano bianco di pari età.
Negli Stati Uniti il 60% dei lavori ben paga-ti (oltre i 100 mila dollari l'anno) possono essere svolti da casa, mentre questo è vero solo per il 10% di quelli meno retribuiti (sotto i 40 mila dollari). Ma non c'è bisogno di guardare oltre oceano per sapere che anche da noi la crisi economica innescata dalla pandemia ha colpito soprattutto i lavoratori con posizioni precarie e meno protette dal sistema di ammortizzatori sociali, con potenziali conseguenze negative sulle disuguaglianze, come scrivono Francesca Carta e Marta De Philippis su Questioni di econo- mia e finanza di Bankitalia.
E però, sottolineano gli economisti, durante la fase acuta di una pandemia, in genere si accumu-lano risparmi, giacché si riducono le possibilità di spendere soldi, al cinema, al ristorante o in viaggi all'estero. «Nella prima metà del 1870, durante un'epidemia di vaiolo, il tasso di risparmio delle famiglie britanniche raddoppiò. Nel 1919-20, mentre infuriava l'influenza spagnola, gli americani hanno accumula-to più denaro che in qualsiasi anno successivo, fino alla seconda guerra mondiale», ricorda l'Economist.
Poi i consumi tornarono a salire: con un boom nella nascita di nuove imprese, e con una maggiore pro-pensione al rischio da parte dei piccoli risparmia-tori. Non solo: dopo il coronavirus, dice Christakis, si acuiranno le distanze tra le diverse tendenze politiche.
«Nei paesi in cui lo Stato ha gestito bene la pandemia, verosimilmente si rafforzeranno le sinistre, per la quale è bene che a gestire questo tipo di emergenze sia il pubblico. Quelli nei quali lo Stato ha palesemente fallito probabilmente vedranno un rafforzamento delle destre, più propense a delegare al privato la gestione delle crisi». Quello che vivrà verosimilmente una vera e propria età dell'oro sarà anche il settore scientifico, e in particolare il comparto della salute.
Non soltanto perché, come dice Christakis: «Una società che si senta assediata dalla minaccia del virus riporrà maggiore fiducia nella scienza e avrà una maggiore considerazione dei ricercatori». Ma anche perché lo sforzo della comunità scientifica globale ha mostra-to che con gli opportuni finanziamenti e la necessaria collaborazione, molti obiettivi sono a portata di mano: basti pensare alla velocità con la quale il virus Sars-CoV 2 è stato sequenziato, i dati condivisi, e i vaccini progettati, sperimentati e messi sul mercato.
Quanta di questa conoscenza accumulata in breve tempo sarà poi sfruttata anche in altri settori, a cominciare da quello dell'oncologia? Attenzione però a parlare di "Ruggenti anni Venti": a dirla tutta non furono poi così ruggenti, soprattutto per tutto il resto del mondo non anglofono, e per altro videro la più grave crisi economica e socia-le della storia del Novecento, quella del Ventinove, come ricorda Maria Chiara Giorgi, docente di Storia contemporanea alla Sapienza Università di Roma.
«Più che a quel periodo, forse bisognerebbe guar-dare al ventennio successivo, agli anni Quaranta. Quando venne presentato al Parlamento britannico, dal liberale William Beveridge, il piano di riordina-mento del sistema di sicurezza sociale, il Report on Social Insurance and Allied Services, dove si trova-no quei pilastri del welfare che sarebbe necessario recuperare oggi, nel periodo post-pandemico».
La novità del rapporto Beveridge stava infatti nella teorizzazione di un welfare state in grado di fornire un elevato livello di protezione sociale a tutti i cittadini, sulla base dell'obiettivo della "libertà dal bisogno", garantendo cure mediche; un completo e universale servizio sanitario; estese assicurazioni sociali; universalità del sistema assistenziale; una misura di reddito minimo atto a salvaguardare la sopravvivenza degli individui indipendentemente dalla condizione lavorativa.
«Grazie alla legislazione sociale dei governi laburisti del 1945-51, quegli anni segnarono l'esordio ufficiale del welfare», sottolinea la storica. Oggi la pandemia ha aumentato la coscienza del fatto che la salute è un diritto universale. Abbiamo capito che «la salute non è solo assenza di malattia, ma è stato di completo benessere fisico, psichico e sociale. Ma abbiamo capito anche che se si taglia lo stato sociale, se si privatizza selvaggiamente la sanità, se si smantellano i servizi sul territorio, siamo tutti più poveri e tutti più a rischio», continua Giorgi, che sul tema è coautrice del volume Storia dello Stato sociale in Italia uscito da poco per il Mulino e ha curato il prossimo numero della rivista Parole-chiave edita da Carocci. Oggi il welfare è finalmente tornato al centro del discorso pubblico: oltre alla salute, il coronavirus ha messo sotto i riflettori il diritto all'istruzione, all'abitare, al reddito. Ma in ballo c'è il destino del pianeta, non del singolo paese.
«Sono necessarie politiche di giustizia sociale a livello in-ternazionale e una riduzione delle diseguaglianze di reddito e ricchezza», conclude Giorgi. Altrimenti la vita dopo la pandemia tornerà uguale a quella di prima. E per molti versi non sarebbe certo una conquista.
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