1 – CONCERTO GROSSO
Angelo Aquaro per “Robinson – la Repubblica”
Dalla Cavern di Liverpool al cielo di Londra neppure i nostri Quattro, per quanto Favolosi, avrebbero potuto immaginare l' ennesimo balzo in avanti quella mattina del 30 gennaio 1969, cinquant' anni fa: il giorno che i Beatles inventarono il live.
Dice: scherziamo? La musica dal vivo esiste da sempre: quantomeno da quando esiste la musica.
"Qualcuno, in una caverna, pratica dei fori a un osso svuotato del midollo, lo porta alla bocca e soffia: in un flauto". Paul Griffiths non lo descrive nella Breve storia della musica occidentale, ma sarà mica difficile immaginare, accanto al primitivo flautista, anche un primitivo ascoltatore.
E poi: cantami o diva con quel che segue (di pubblico), i cori medioevali e le sfide tra organi barocchi, un certo Wolfgang Amadeus Mozart che fa impazzire le corti ( nascita del divismo), giù giù fino al povero Sergej Rachmaninov scappato dai soviet e costretto fino alla morte in tour per gli Usa - con la beffa di Eric Carmen che gli fregò pure il Piano Concerto N. 2 in All by myself. E allora che c' entra il rooftop concert, il concerto sul tetto di Londra?
A cercare una data simbolo, anche limitandoci al rock, non sarebbe meglio spingersi più in là, 15 agosto 1969, nel tripudio di Woodstock? Ma soprattutto: com' è che un concerto nato per promuovere un disco, e uno special-tv che poi diventerà il film Let it be, un concerto nemmeno annunciato e senza paganti, avrebbe finito per rappresentare la madre di tutti gli show? Beh, perché profetica fu la scelta di scommettere sul live quando tutti, Beatles compresi, puntavano sulle magie da studio: e oggi il 59% dei guadagni (fonte Midia Research) viene dai tour e solo il 9% dai dischi.
Perché fu il trionfo dell' happening: e oggi il live, spiega Simon Frith in The Routledge reader on the sociology of music, è "la forma più vera dell' espressione musicale". Perché nella follia del concerto sul tetto, cari Pink Floyd, c' era già lo show nei posti più impensabili, da Pompei al Muro di Berlino. E perché quel live fu profeticamente multimediale: ok, Jean- Luc Godard aveva ripreso i Rolling Stones in Sympathy for the devil, ma Michael Lindsay- Hogg che insegue i Quattro durante le prove, liti comprese, è un vero reality show prima-che. Può bastare?
La verità, dice a Robinson Steve Waksman, il prof dello Smith College autore di Instruments of desire e ora al lavoro su una storia della musica live, è che per quanti precedenti puoi trovare « l' influenza dei Beatles era gigantesca. Per questo quel concerto fu fondamentale: anche se il suo peso sembrò meno immediato e si sviluppò nel tempo». E nello spazio. «Woodstock e il rooftop sono i due estremi: il festival immenso e il concerto così piccolo da non avere quasi pubblico. Ma accomunati dalla stessa concezione: la performance evento unico e irripetibile».
Tu chiamala, se vuoi, eterogenesi: dei feeling. Perché quel giovedì che doveva segnare il come back, il ritorno in pubblico dopo 885 giorni - da San Francisco, 29 agosto 1966, apice della Beatlemania - fu invece il giorno in cui i Beatles presentarono Get back: che vuol dire, però, tornatevene indietro. E la canzone che Paul aveva buttato giù prendendo di mira i razzisti anti-immigrati di Enoch Powell, il papà di tutti i populisti d' oggi, finì per diventare il canto d' addio: l' ultimo pezzo dell' ultimo album, Let it be.
Indietro, alla fine, erano tornati loro. Eppure i Beatles, quel giorno, sentivano di avercela fatta: questione di feeling, appunto. Dopo 42 minuti sul rooftop della Apple, la compagnia beatlesiana nel cuore di Londra che avrebbe ispirato il nome all' utopia tecnologica di Steve Jobs, John Lennon esclamò: "Grazie a nome di tutto il gruppo e di ciascuno di noi: spero che abbiamo passato l' audizione".
Risate dal pubblico accorso, impiegati della Apple e curiosi dai palazzi vicini, mentre i poliziotti allarmati dal chiasso non restavano col naso all' insù come i passanti - Hey, sono i Beatles - e correvano sul tetto per interrompere la trasmissione. Ma non era già un presagio quella scritta, " The End", grande così, sulle immagini della band che smonta in Penguin encyclopedia of pop music: e tornare a suonare dal vivo avrebbe cambiato tutto? "Il mondo che abbiamo vissuto - le file nei negozi per il nuovo album di Beatles o Bob Dylan - era un' anomalia. Oggi il pop vive dei concerti: e i dischi sono diventati strumenti di promozione. Siamo tornati a com' era prima dei Beatles e Dylan: il live cuore della musica".
the beatbox eseguono le canzoni dei beatles (2)
Elijah Wald, il "bastian contrario" della critica (copyright New York Times), l' autore del famigerato How the Beatles destroyed rock' n'roll, come i Beatles distrussero il rock, non la beve: "Anche Dylan aveva fatto un paio di pezzi l' anno prima al tributo per Woody Guthrie. E allora? No, il rooftop concert fu importante, sì, ma solo per i fan di superstar diventate ormai eremiti". Ok: ma non sarebbe più giusto chiedersi prima di tutto "perché" erano diventati - ohibò - eremiti? Quando dicono addio ai concerti, scottati dai troppi yeah yeah ma anche dal razzo sotto i piedi di John a Memphis, il Ku Klux Klan pronto a fargliela pagare per aver detto che i Beatles "sono più famosi di Gesù Cristo", i Quattro seguono senza volerlo la scelta Glenn Gould.
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È il ' 64 e il genio del piano dice basta: in concerto si sente "svilito, un oggetto da vaudeville". L' uomo che leggerà Bach a due velocità - le sue Variazioni Goldberg durano 38 minuti nel 1955 e 55 minuti nel 1981 - teorizza lo studio di registrazione come strumento: "Finiremo per incidere tanti pezzi da rimontare e diremo agli ascoltatori: adesso fate da soli. Siate, in un certo senso, il vostro stesso performer". È la simbiosi tra chi esegue e ascolta che finalmente si compie: realizzando con la tecnica (ahi, Heidegger!) ciò che i romantici riponevano nel sentimento e la neurobiologia oggi nei neuroni a specchio. Anche John & Paul si erano messi a tagliare e cucire, vedi il capolavoro Sgt. Pepper' s. Ma altro che simbiosi.
L' editing può diventare una trappola: di solitudine. John è stanco di sovrapproduzioni e vuole schitarrare senza fronzoli. Paul non ne può più delle "caramelline", dice, dell' elettronica, e pensa a un album in presa diretta senza il mago dello studio, George Martin, il Quinto Beatle. E poi, oh yes, il gran finale in pubblico: ma dove?
Nel suo The Beatles on the roof Tony Barrell elenca tutte le venue ipotizzate. L' anfiteatro romano di El Diem, Tunisia, " tra musulmani, cristiani, neri, bianchi, un melting pot". No, a Tripoli, Libia. Macché, vaneggia Paul, costruiamo un nuovo Colosseo e facciamo entrare i Beatles con i leoni. Ringo: e perché no in barca sul Mersey? O se proprio dobbiamo farlo strano: sulla Rocca di Gibilterra, che è sempre di Sua Maestà. Ci si mette Yoko Ono: suoniamo davanti a ventimila sedie vuote " per tutti gli invisibili e i senza nome del mondo". Il suo John ha invece un' idea da miliardari: lo yacht di Jackie Kennedy Onassis. E ancora: il Grand Canyon, il Parlamento, la National Gallery. Si pensa perfino a volare in Biafra per i profughi - e anche qui un ante-litteram: l' invenzione del Live Aid.
Alla fine, la salita sul tetto di casa (di produzione) è la via più breve, magari ispirata dalla scappatella dei Jefferson Airplane qualche settimana prima sul roof di un hotel di New York. La sortita è insomma una scorciatoia, in inglese shortcut, tagliare corto: anche con le liti che sgretolavano la band. Poi, sì, col senno di poi in troppi leggeranno il rooftop come metafora, vedendo ammainare lassù la bandiera degli anni Sessanta: perché in quello stesso ' 69 prima Woodstock accenderà l' illusione che un altro mondo è possibile, e poi i quattro morti di Altamont, 6 dicembre, rafforzeranno la leggenda maledetta degli Stones amici-nemici, consegnando gli anni Settanta alle Harley Davidson degli Hell' s Angels, gli Angeli dell' Inferno.
Tutto vero. Ma se mezzo secolo dopo siamo ancora abbarbicati a quel tetto non è per assistere al tramonto del mondo che fu. Al contrario. È perché la voglia di suonare alla fine lì vinse: proprio mentre i Beatles affondavano. È perché live vuol dire, appunto, vivo. E perché su quel tetto continua a perpetuarsi l' illusione dell' eterno che ogni performance ci regala: dal "flautista" di Griffiths agli ologrammi che oggi riportano in concerto Tupac Shakur e Maria Callas. E dai: tutto ' sto frastuono e non li sentite? C' è Ringo con Paul che urla Get back, e il fantasma di George con quello di John che implora straziante Don' t let me down, non deludermi, no no, non deludermi. Non costringermi a tornare giù.
2 – VOGLIO UNA VITA TUTTA LIVE
Vasco Rossi per “Robinson – la Repubblica”
Live is life: il concerto è vita. Certo, ci sono i dischi ma suonare in pubblico è la mia vita da più di quarant' anni. I momenti più belli per me sono quando scrivi una canzone e poi quando prende vita sul palco, con la gente. In quel momento il rapporto diventa fisico, diventa un rapporto, dico sempre, scherzando, di comunione e liberazione. Adesso stiamo lavorando alla scaletta degli otto concerti che faremo a San Siro e a Cagliari che devono avere un senso, una sequenza precisa per dare le emozioni giuste. Per esempio ci sarà un pezzo che non faccio da tanto come Ti taglio la gola ma sarà arrangiato in versione punk!
E poi i concerti mi aiutano a tenermi in forma, che è un attimo lasciarsi andare! Le canzoni per me nascono per essere cantate dal vivo, il disco in fondo è solo uno strumento. Un tempo si vendevano molti dischi oggi invece siamo ritornati a come era agli inizi ma secondo me va bene così, un musicista deve vivere suonando dal vivo! Ogni volta che sali su un palco la sensazione è sempre quella: ti emozioni e senti quell' energia intorno a te che tu vuoi restituire alle persone che vengono a vederti. Vuoi farle a tua volta emozionare e divertire.
Quando provi queste emozioni insieme a cinquantamila persone è una bella botta. E quando finisci sei come svuotato ma felice. Io sono meno imbarazzato quando salgo su un palco che quando entro in un bar perché sul palco c' è la musica e non pensi alle singole persone, canti per un' anima sola. Il concerto è anche, per allacciarmi all' ultima canzone che ho fatto, La verità, un momento di verità assoluta perché lì non puoi nascondere niente e poi nelle mie canzoni io ho sempre scritto la verità.
Ho scritto quello che mi sentivo dentro, raccontavo cose di cui mi sarei vergognato di parlare con un amico, le mie debolezze, le mie paure e forse è per questo che il pubblico prova un senso di condivisione, quasi come fosse una terapia: "non sono solo, andiamo avanti". Credo che sia una questione di affinità elettive con il pubblico, gente che ha sensibilità particolari, che non si sente in sintonia con le cose "normali". Sono fortunato. Ho un pubblico così straordinario che compra i biglietti subito, a scatola chiusa. Forse perché sa che non rimarrà deluso.