Valeria D'Autilia per “la Stampa”
«Ho fatto di tutto: cuoca, bracciante, centralinista. E sono ancora precaria. La vergogna non può essere la nostra, è di chi ci sfrutta». Michela Piccione vive poco lontano da Crispiano, dove soltanto ieri è stato chiuso l'ennesimo call center irregolare. Conosce bene questo settore: lei stessa ha lavorato per pochi spiccioli, prima di trovare il coraggio di dire basta. Per le sue colleghe in provincia di Taranto, sfruttate per 4 euro l'ora, ha parole di comprensione.
«Purtroppo c'è chi si approfitta del bisogno delle persone. Si dice di sì pur di avere un'entrata. Se uno vuole dare da mangiare ai bambini, ci va lo stesso. Anche a quelle condizioni». Lei però, qualche anno fa, ha trovato la forza di denunciare e convincere le donne che lavoravano con lei a fare altrettanto.
«Eravamo in un call center, ma ci sfruttavano. Dalla busta paga venivano decurtati persino i minuti trascorsi in bagno e per comprare la carta igienica facevamo la colletta tra noi. Da contratto nazionale avrei dovuto guadagnare 6,50 euro lordi l'ora, invece nel mio caso, di fatto, mi davano 1 euro. Ho convinto le altre a seguirmi nella denuncia alla Slc Cgil. Una collega è arrivata a prendere 92 euro totali per un mese: pagata 33 centesimi orari. Ho resistito due mesi, poi me ne sono andata».
Quella brutta storia le è servita: «Mi ha rafforzata nel carattere e nella consapevolezza che, se tutti alziamo la testa, forse le cose cambiano». Michela lavora dai tempi della scuola, nella sua Sava, provincia di Taranto. Oggi ha 35 anni, un marito e due figli. E ancora nessun contratto a tempo indeterminato. «Quello è il sogno, inutile nasconderlo. Vivo di rinnovi, senza certezze per il futuro. I miei genitori mi hanno insegnato i valori del sacrificio e dell'impegno. Cerco di non deluderli. Ma non è facile».
Adesso è impiegata in un call center regolare: circa mille euro al mese con un contratto a progetto, ma sulla sua pelle ha ancora i lividi di quelle esperienze. «Per un po' di tempo ho trovato impiego come aiuto cuoca. Dalle 6 e 30 del mattino alle 20: paga giornaliera 35 euro. A volte ci chiedevano di restare anche per il servizio serale, soprattutto nei giorni festivi. Niente contratto. Ho mantenuto l'impegno perché sono fatta così. Butto il sangue, ma non metto in difficoltà gli altri». In questo caso i suoi datori di un lavoro nero e sottopagato. Un diploma all'istituto tecnico chimico biologico e gli studi universitari interrotti a pochi esami dalla laurea in Scienze biosanitarie.
«Mio marito aveva fretta di sposarsi» racconta sorridendo. «Chissà, magari un giorno riprenderò, anche se con un ragazzino di 13 anni e una bimba di 4 non è semplice. Ci vuole impegno e bisogna avere la testa libera. Ma è a loro che pensi quando lavori, alle loro esigenze. Ad accontentarli come puoi. Ma anche alla voglia di essere indipendente per te stessa». In qualche modo, ha sempre provato a supportare il bilancio familiare «per dare un po' di ossigeno». Suo marito è vetraio e «si sa, in questo settore lo stipendio non è fisso». Per un artigiano ogni mese è diverso dall'altro.
«Non è stabile, il tuo pane mensile devi creartelo da solo». Lei lo sa bene, ed è per questo che cerca di dare una mano come può. «Mi sono sempre data da fare, anche dopo la scuola in tempo di vendemmia, nei campi. Poi in un negozio di bomboniere, nelle attività ricettive. Ho provato vari concorsi, anche per una ditta di pulizie industriali. Per quattro anni, sono stata in un grande call center. Lo stipendio era buono, puntuale. Ma la vendita aggressiva non era per me».
La sua gioia più grande, di recente, un incarico da portalettere. Un impiego a tempo, sperando in un rinnovo che non è arrivato. «In 3 mesi lì ho guadagnato la stessa cifra che prendo in 8 mesi di call center. Non mi sembrava vero, alle Poste si sta da Dio. Però è durata poco. Sai, le cose belle finiscono».