Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa”
«D’accordo per quarant’anni poi adesso non mi copre più… perché io non la copro più». A parlare è Paolo Bellini, l’uomo nero condannato in primo grado all’ergastolo per la strage alla stazione di Bologna, in un’intercettazione ambientale inedita e recentissima, poche ore prima di essere arrestato.
Un’intercettazione definita dalla Procura generale «tanto sintetica quanto altamente significativa», perché parlando dell’ex moglie Maurizia Bonini conferma quanto Procura e Corte d’assise hanno sempre sostenuto (ed egli negato ripetutamente in udienza): cioè che lei gli abbia fornito per quarant’anni un falso alibi per la mattina del 2 agosto 1980, salvo accusarlo nell’ultimo processo, concluso un anno fa.
L’intercettazione è finita all’attenzione del tribunale del riesame di Bologna che ha confermato l’arresto di Bellini, chiesto dai procuratori bolognesi Musti e Proto e disposto dal gip.
Le date sono importanti. Il gip firma l’ordinanza di arresto il 21 giugno. Bellini viene fisicamente arrestato il 29 giugno. Ma il 26 giugno, tre giorni prima di essere portato in carcere, una microspia piazzata nella sua auto dalla Procura di Firenze, che indaga sulle stragi mafiose del 1993, registra la conversazione in cui Bellini si sfoga contro l’ex moglie, che meditava di uccidere per far fuori il principale testimone a suo carico. […]
Ora la Procura generale bolognese, che ha ricostruito i livelli politico-finanziari della strage alla stazione, valorizza questa intercettazione «sotto il profilo della piena consapevolezza in capo a Bellini della gravità della situazione processuale che lo investe. Al di là della valenza sotto il profilo della responsabilità, trattandosi evidentemente di una confessione indiretta, la frase assume specifico rilievo anche sotto l’aspetto del pericolo di fuga».
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Aviere, esponente neofascista di Avanguardia Nazionale, killer della ‘ndrangheta, Bellini è personaggio misterioso e multiforme. «Sapevo che era dei servizi segreti», ha detto l’ex pentito di mafia Santino Di Matteo. All’inizio degli Anni 90, Bellini (con l’alias di Aquila Selvaggia) agganciò esponenti mafiosi in Sicilia, nell’ambito di una singolare trattativa come emissario dei carabinieri (compreso il Ros del generale Mori) per consentire il recupero di opere d’arte rubate alla Pinacoteca di Modena.
L’interlocutore mafioso della trattativa era Nino Gioè, boss di Altofonte, uno degli attentatori di Capaci, considerato vicino a servizi e massoneria. I due si erano conosciuti in carcere dieci anni prima, quando Bellini era latitante con il falso nome brasiliano Roberto Da Silva. Gioè morirà suicida nel 1993 in carcere a Rebibbia in circostanze misteriose, proprio nel pieno della campagna stragista di cosa nostra contro il patrimonio artistico nelle città del continente.
Secondo il boss mafioso pentito Giovanni Brusca fu proprio Bellini a «suggerire» la strategia degli attentati contro il patrimonio artistico: «Se ammazzi un magistrato ne arriva un altro, disse a Gioè. Se butti giù la Torre di Pisa distruggi l'economia di una città e lo Stato deve intervenire».
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