Jacopo Iacoboni per www.lastampa.it
L’arresto dei sette ex estremisti rossi condannati per omicidi e atti di terrorismo in Italia e riparati in Francia è, forse, la vera fine di un grande equivoco determinato da quella che fu chiamata la “dottrina Mitterrand”, il riconoscimento del diritto di asilo anche a ex terroristi, a certe condizioni.
A Rennes nel 1985, al Palais des Sport, le président la enunciò per la prima volta, spiegando anche chi ne avrebbe beneficiato: «I rifugiati italiani che hanno preso parte in azioni terroristiche prima del 1981, hanno rotto i legami con la macchina infernale a cui hanno partecipato, hanno iniziato una seconda fase della loro vita, si sono integrati nella società francese (...) Ho detto al governo italiano che erano al sicuro da qualsiasi sanzione di estradizione».
Torneremo poi su chi fosse il governo italiano allora, intanto bisogna dire che si aprì subito una discussione infinita, che andò molto oltre gli anni ottanta, su quanto estensiva dovesse essere l’interpretazione e l’applicazione della “dottrina”: che Mitterrand enunciò in forme orali, anzi con varie formulazioni, e con capi di governo, ma lasciandola sempre un po’ nel vago. Forse deliberatamente.
ovidio bompressi giorgio pietrostefani
Inizialmente pensata solo per chi non avesse condanne per reati di sangue, quella che prevalse fu poi una linea massimamente estesa, quasi sfacciatamente celebrativa, che arrivò a giustificare la presenza, sul suolo francese, anche di gente (soprattutto ex terroristi italiani) che aveva commesso diversi omicidi – una equivoca magnanimità che Mitterrand non dimostrò mai, né lui né i successori, contro il terrorismo francese di Action Directe, per esempio, i cui capi finirono in galera con pene durissime, sebbene l’estensione e la portata del fenomeno in Francia non sia stata minimamente paragonabile agli anni di piombo in Italia.
Giorgio Pietrostefani adriano sofri
Per dire, quando Cesare Battisti – il terrorista dei Proletari armati per il Comunismo, condannato per quattro omicidi, a due dei quali aveva partecipato direttamente – riparò in Francia, e poi scappò dalla Francia nel Brasile di Lula, nacque a Parigi (e in Italia) una mobilitazione intellettuale che ne faceva una specie di eroe romantico perseguitato da un regime (la descrizione dell’Italia degli anni settanta come una specie di Cile di Pinochet), e processato senza garanzie. Si rispolverarono fisarmoniche. Si cantò “Addio Lugano bella”. Si potevano di nuovo fare le fiaccolate al chiaro di luna. La cosa ovviamente lasciava sgomenti e amareggiati i familiari delle vittime del terrorismo, di solito le ultime a essere prese in considerazione, ma anche tantissime persone a sinistra. Fatto è che già il primo ministro Raffarin decise di restituire all’Italia l’ex brigatista Paolo Persichetti, nel 2002. La vicenda di Battisti infiammò però l’opinione pubblica francese assai di più di quella di Persichetti, o di Marina Petrella (brigatista anche lei, tra gli arrestati odierni). E vennero fuori alcuni atteggiamenti e tic a dir poco irritanti, tra gli intellò parigini, e tra alcuni italiani.
Almeno di tre tipi. Lo storico Marc Lazar li descrisse così a La Stampa: «Alcuni intellettuali - rappresentati dalla figura di una grande scrittrice, Fred Vargas - sono convinti in buona fede che il caso Battisti sia un nuovo caso Dreyfus, il caso di un uomo ingiustamente perseguitato.
C'è poi una seconda area - diciamo guidata da Bernard Henry Lévy - che non entra nel merito della colpevolezza di Battisti, si limita a proporre un'interpretazione estensiva della dottrina Mitterrand, che amplia il diritto d'asilo a tutti gli ex terroristi. Infine una terza schiera di scrittori ha l'idea che negli anni settanta in Italia ci fosse una guerra civile, e Battisti fa parte di una lunga fila di vittime di questa guerra. È l'idea che sostiene, per esempio, Philippe Sollers».
LUIGI BERGAMIN CESARE BATTISTI
Mitterrand, sostennero allora gli avvocati di Battisti, aveva incluso anche il caso di Battisti tra quelli protetti dalla “dottrina”, e lo comunicò a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Come che sia, adesso questo groviglio, giuridico e morale, si ripropone.
Giorgio Pietrostefani - Omicidio Luigi Calabresi
Probabilmente il caso che farà più discutere, per la densità e la risonanza storica italiana del crimine a cui è legato, è quello di Giorgio Pietrostefani, uno dei fondatori di Lotta Continua, condannato a 22 anni per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi (Ovidio Bompressi e Leonardo Marino furono gli autori materiali, Pietrostefani e Adriano Sofri furono condannati come mandanti).
Prima della sentenza della Corte d’appello di Venezia, quindicesima in dodici anni, che confermò la condanna a Pietrostefani, lui fuggì a Parigi. Aveva avuto problemi di salute e un trapianto al fegato. Da anni tutti sapevano dove vivesse, spesso frequentava persino giornalisti, ma nessun governo dall’Italia lo aveva mai chiesto indietro.
Mario Calabresi, il figlio del commissario assassinato sotto casa a Milano il 17 maggio del 1972, conclude il suo libro “Spingendo la notte più in là” proprio andando a Parigi: «Volevo tornare a Parigi per parlare con Giorgio Pietrostefani, l’uomo che è stato condannato per aver organizzato l’omicidio di mio padre. Lo ricordo ai processi, la faccia dura, mai una parola, mai un’emozione.
il commissario luigi calabresi
Un oggetto misterioso, sembrava fatto di pietra, non rilasciava dichiarazioni alla stampa, sfuggiva i microfoni e si rifugiava dietro occhiali da sole con la montatura quadrata. Mi provocava molto disagio». Prima di questo incontro, la signora Gemma Capra, la vedova di Calabresi, aveva detto al figlio: «Digli che io ho perdonato, sono in pace e così voglio vivere il resto della mia vita».
gemma calabresi con i figli paolo, mario e luigi mario calabresi mario calabresi