Graziella Melina per “il Messaggero”
«Sembra che la decrescita dei casi stia dando qualche piccolo ma non trascurabile segnale. Ce la giochiamo a non avere una epidemia trasferita al Sud, per il momento non è accaduto». Massimo Galli, direttore di Malattie infettive dell'ospedale Luigi Sacco di Milano, da diverse settimane senza sosta alle prese con pazienti affetti da Covid, resta cauto: «Non cantiamo vittoria, soprattutto non cominciamo a parlare troppo presto di riapertura».
Il numero dei contagiati a Milano è ancora abbastanza alto. Come mai?
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«C'è molta gente che è stata chiusa in casa con l'infezione già in atto, l'incubazione o alle prime manifestazioni e che non è riuscita a farsi ricoverare né a farsi un test. In Lombardia, ad essere ottimisti, noi abbiamo dalle 7 alle 10 volte più infettati rispetto ai dati ufficiali. È evidente che il distanziamento è stato fondamentale per affrontare l'epidemia, ma persone che possono andare ad aggravarsi stando in casa purtroppo ce ne sono per forza».
Anche il numero dei morti è ancora alto.
«Anche questo si giustifica col fatto che si tratta di persone che hanno combattuto la malattia per molto tempo e a un certo punto non riescono a farcela. Muoiono dopo 2- 3 settimane di ricovero. I morti di adesso sono in larga misura persone che si sono infettate parecchio tempo fa».
Secondo l'Oms si è abbassata l'età media dei casi gravi. Le risulta?
«Dipende dalle rilevazioni che si fanno. Io continuo a vedere molti ricoveri di anziani, meno di giovani. Del resto, finora i giovani non ci siamo potuti nemmeno permettere di ricoverarli, soprattutto se non avevano un quadro decisamente compromesso. Questa resta una malattia dell'anziano più gravemente e frequentemente che nel giovane. Certo, non siamo tutti uguali e quindi ci possiamo aspettare anche un tot di pazienti giovani. E poi conta anche molto la configurazione demografica dei diversi Paesi, che forse altrove ha implicato una presenza di soggetti giovani piuttosto estesa».
C'entra anche il fatto che non a tutti viene fatta la diagnosi?
«Dipende da come fai i famigerati tamponi. Da noi probabilmente abbiamo moltissime persone giovani a casa con l'infezione, forse un giorno quando potranno fare un test sierologico riusciremo a capire se l'hanno avuta o no».
Con quali farmaci state curando i pazienti?
«Il Covid 19 è una malattia che resta assolutamente orfana, nel senso che tutto quello che si sta facendo è assolutamente sub iudice: si prova, e talvolta in condizioni che non consentono nemmeno di arrivare a dire con una ragionevole certezza se le cose che si fanno funzionano. Tutti i farmaci che abbiamo utilizzato da tempo hanno momenti e livelli diversi per essere impiegati. Sono tutti abbastanza deboli però: non abbiamo per quasi nessuno dati preliminari di esperimento nemmeno sugli animali».
Pensa che si potrà ritornare alla normalità a breve?
«Direi di no. È giusto programmare come fare a riaprire alcune attività anche con dei test, ma non bisogna farlo troppo presto, perché significherebbe vanificare tutti gli sforzi fatti».