Vera Martinella per il corriere.it
Un uomo su otto in Italia farà i conti con una diagnosi di tumore alla prostata. Con 36mila nuovi casi diagnosticati nel 2020 in Italia è il tipo di cancro più frequente nel sesso maschile dopo i 50 anni, ma i numeri sono in aumento anche fra i più giovani. La buona notizia è che, se identificato in fase iniziale, oggi oltre il 90% dei pazienti riesce a guarire o a convivere anche per decenni con la malattia. La cattiva è sempre la stessa da anni: gli uomini sono restii ai controlli e la diagnosi precoce in oncologia può salvare la vita.
«Sarebbe bene che tutti gli uomini dall’adolescenza in poi facessero almeno una visita l’anno dall’urologo per verificare lo stato di salute di reni vescica, prostata e organi genitali. Esattamente come fanno le donne con il ginecologo — sottolinea Giuseppe Carrieri, direttore del Dipartimento di Urologia all’Università di Foggia e componente del Comitato esecutivo della Società italiana di urologia (Siu), in occasione del 94esimo Congresso nazionale della società scientifica che si apre oggi a Riccione —. Poi a partire dai 50 anni, e dai 45 anni se c’è familiarità e si rischia di più, si parte con l’esame del Psa e, se è necessario approfondire, con la risonanza magnetica multiparametrica della prostata».
Il test del Psa è un utile strumento di diagnosi precoce del tumore alla prostata: può favorire la scoperta della malattia in stadio iniziale, quando è più facile da curare e si può guarire definitivamente. Oggi è anche certo che può portare a molti casi di diagnosi e trattamenti in eccesso perché vengono anche individuati i tumori cosiddetti «indolenti», che clinicamente non sono significativi (in pratica potrebbero non comportare mai alcuna conseguenza per la salute degli uomini), con il rischio di un conseguente sovra-trattamento (cioè l’adozione di terapie inappropriate che comportano costi inutili per il Sistema sanitario e, in termini di effetti collaterali, anche per i pazienti).
È in questo contesto che la risonanza magnetica multiparametrica ha un’importanza strategica, come hanno dimostrato sempre più ricerche negli ultimi anni - aggiunge Carrieri -. Questo esame evidenzia la morfologia della ghiandola prostatica e delle strutture circostanti e rileva aree con caratteristiche particolari, diverse nel tessuto sano e in quello tumorale, consentendo di identificare le forme che meritano di essere biopsiate e quelle ritenute non pericolose».
Gli uomini con una neoplasia non «pericolosa» possono poi tenere solamente sotto controllo la malattia con una strategia ben definita, la sorveglianza attiva, senza sottoporsi a cure che possono avere conseguenze come disfunzione erettile e incontinenza urinaria. «Le terapie a disposizione per il tumore alla prostata oggi sono moltissime - spiega Francesco Porpiglia, direttore dell’Urologia all’Università di Torino e all’Azienda Ospedaliera San Luigi Gonzaga di Orbassano -, sia per un carcinoma ai primi stadi, quando è localizzato e non ha ancora dato metastasi, sia nelle fasi più avanzate di malattia, dove abbiamo nuove molecole in grado di allungare e migliorare la vita anche dei pazienti più “difficili” da curare. E individuare un’alterazione genica nei nostri malati è sempre più determinante per scegliere la strategia terapeutica migliore nel singolo caso».
Ma chi è più a rischio di ammalarsi? «Senza dubbio chi ha una familiarità per questa patologia, che ha anche maggiori probabilità di avere una neoplasia più aggressiva e in età più precoce — risponde Carrieri —. Ovvero gli uomini con parenti di primo grado (padre e fratelli) con la malattia, soprattutto se manifestata in età inferiore ai 55 anni. Oppure quelli che hanno familiari con un tumore ereditario della mammella e/o dell'ovaio (per via dei geni BRCA). Gli uomini con un parente di primo grado affetto da questa malattia presentano un rischio fino a 3 volte più alto di svilupparla. Per chi invece ha più di un familiare colpito il rischio aumenta addirittura di 5 volte».
Infatti recenti statistiche indicano che circa il 10-15% dei casi di tumore alla prostata è ereditario e una percentuale non trascurabile (tra il 20 e il 30%) presenta una mutazione dei geni BRCA1/2 o ATM che si associa spesso a una malattia potenzialmente meno responsiva ai farmaci più comunemente utilizzati. «Per questo è fondamentale identificare le mutazioni genetiche nelle forme avanzate della malattia, poiché in questa fase il tumore diventa un bersaglio sensibile a nuovi farmaci, come gli inibitori di PARP, efficaci nel contrastare le neoplasie causate da un gene BRCA mutato e già ampiamente utilizzati con successo contro il cancro di seno e ovaio, disponibili per la prostata solo in protocolli sperimentali» aggiunge Porpiglia.
Dunque anche gli uomini possono eseguire le indagini genetiche, che vanno però effettuate in condizioni ben precise. «Per esempio, in caso di multipli membri della propria famiglia con storia di tumore di prostata diagnosticato in giovane età oppure nel caso in cui sia presente un componente della famiglia con già nota mutazione genetica - precisa Porpiglia -. Attualmente sono rimborsabili solo in situazioni specifiche all’interno di un counseling genetico».
Chi è poi più in pericolo? «Altri fattori di rischio vanno riscontrati nelle abitudini alimentari e nello stile di vita - conclude Carrieri -. A far lievitare le probabilità di ammalarsi sono soprattutto un alto contenuto di proteine nella dieta e la sindrome metabolica, una patologia caratterizzata da aumento della circonferenza dell’addome, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolo “buono” HDL e aumento della glicemia a digiuno. Se si hanno anche solo tre su cinque di queste caratteristiche si soffre di sindrome metabolica e sale il rischio di cancro perché si crea un microambiente favorevole alle cellule cancerose per svilupparsi e prolificare».